L'indispensabile ruolo del cattolicesimo verso lo Stato e la società

                                                                                                      Fonte: Totus Tuus


Venerabile prof. GIUSEPPE TONIOLO
Docente di Economia Politica all’Università di Pisa

Edizione del «Comitato Opera Omnia di G. Toniolo»; Città del Vaticano 1947; Serie I: Scritti storici; Volume I (intonso); pp. 1-102, con piccoli aggiornamenti lessicali e semantici a cura della redazione di totustuus.net.


Problemi ed ammaestramenti sociali dell'età costantiniana


L'enunciazione del tema «Problemi ed ammaestramenti sociali dell'età costantiniana» definisce già di per sé stessa, giusta i canoni più elementari del metodo scientifico e a schermo di ogni presunzione, l'oggetto ed i limiti di questa trattazione. (1)
Essa pertanto non si propone di penetrare i misteriosi e sublimi domini della teologia, per additare nel periodo costantiniano il trionfo del sovrannaturale cristiano sul paganesimo, né tenta le altezze della filosofia della storia per dimostrare le ragioni prime ed ultime degli stessi umani avvenimenti (ciò che è lasciato ad altri), bensì si prefigge un quesito assai più modesto.
Ed è quello di delineare in qual modo e misura i fatti storici, indubbiamente eccezionali e solenni, che si aggirano intorno al nome e alla età di Costantino, abbiano dispiegato la propria azione sul progresso umano sociale. Siamo dunque in tema di «sociologia» che io non esito di definire: «la scienza positiva (non positivistica) della società nella sua costituzione e nella sua vita, o dottrina generale che sul piedistallo dei fatti sociali ricerca le cause e le leggi normali dell'incivilimento».
    Assunto in tal senso, questo tema, comunque subordinato ad altre ricerche superiori, pure si rialza e complica alla sua volta, per la natura complessa di questa scienza che è analitica nei suoi elementi compositivi ed eminentemente sintetica nelle sue induzioni, sì da imporre a chi si propone toccarne qualche problema in questa breve monografia, il compito di tracciare appena alcune linee prospettiche, bastevoli a suggerire taluni ammaestramenti di attuale applicazione.

    Dal Gibbon al Gregorovius e al Grisar, per oltre un secolo fino ai dì nostri, ben pochi argomenti esercitarono gli ingegni e preoccuparono gli animi degli studiosi quanto quello della «decadenza dell'impero romano» atte stando con ciò, quali che fossero gli intendimenti dei singoli autori e i risultati di tali indagini (raramente invero spregiudicate e obbiettive), la grandezza eccezionale di quell'avvenimento nella storia. (2) Si sfasciarono altri imperi e regni nella loro possanza resistita per secoli e millenni, come quelli di Egitto, o dei babilonesi, assiri, e persiani succedutisi nella Mesopotamia, caddero e si esaurirono, nei loro splendori antichissimi, culture come quelle dell'India e della Cina pur cotanto oggi illustrate dagli orientalisti, senza che quelli e queste lasciassero traccia alcuna di memoria e ammirazione nella coscienza dei posteri fuor che in pochi filosofi ed eruditi, mentre le sorti di Roma antica rimasero per quasi duemila anni fino ad oggi ad alimentare il pensiero, le sollecitudini, le speranze, le delusioni e i dolori delle generazioni, così nelle vaghe ma indelebili reminiscenze popolari, come nel fervore degli studiosi. Quale mai la ragione misteriosa dell'importanza straordinaria e quasi esclusiva, tradizionalmente annessa al disparire dell'impero romano? Senza dubbio essa deriva dalla compenetrazione del fatto col tramonto del paganesimo e coll'albeggiare simultaneo del cristianesimo, vale a dire di due religioni le cui vicende segnarono la linea divisoria e posero il segnacolo centrale fra due cammini dell'incivilimento, di cui l'uno era preparazione e l'altro compimento nella storia dell'umanità.
     Bensì è riconosciuto che questo dramma meraviglioso delle ascensioni cristiane sul declino pagano, il quale poi si risolse in quella lotta irreconciliabile e definitiva che S. Agostino intitolò fra «la città di Dio e quella del mondo», si dispiegò entro i confini dello stesso dominio romano con due cicli storici speciali, ciascuno contrassegnato da procedimenti lor propri; due cicli i quali, sebbene riusciti pur tardi nelle ricerche storiche e socio logiche a fondersi insieme, richiedevano tuttavia di essere approfonditi con eguale intensità di studi, affine di meglio estimare il valore dei rispettivi servizi nella comune cospirazione al risultato finale, quale si rivelò nei disegni divini: di ridare cioè in Roma una novella e più sublime unità di quella delle aquile e delle leggi dell'antico impero alla civiltà futura, per sua norma, saldezza e guida. Invece risulta che, se la innovazione religiosa e civile avveratasi nell'occidente romano attrasse l'operosità sagace e ininterrotta di molti storici e scienziati, non altrettanto seguì per le regioni orientali; sicché fin dall'Istituto degli orientalisti di Francia s'era sentita la convenienza di promuovere una serie d'indagini sulla decadenza dell'impero bizantino, le quali pare non avessero successo completo. Ora la ricorrenza odierna del centenario costantiniano promette di colmare questa lacuna, con grande profitto della storia e degli studi sociali insieme.
    Sarà questa una nuova ragione di tesoreggiare fruttuosamente tale commemorazione di Costantino, ad una condizione, a nostro avviso, la quale potrà aversi come uno dei criteri metodici raccomandabili in argomento; che si consideri cioè non tanto soggettivamente la persona e l'opera immediata di Costantino quanto l’età costantiniana nei suoi coefficienti e nei suoi effetti sociali; la quale età potrebbe forse utilmente farsi partire da Diocleziano, iniziatore di quel riordinamento dell'impero che Costantino in parte compì e in parte trasformò, e protrarsi attraverso Teodosio I, Teodosio II e Giustiniano fino agli ultimi legislatori bizantini, Basilio e Leone il Saggio, abbracciando così un corso di tempo, dalla fine del secolo III a quella del secolo IX dell'era cristiana. Più in là scompare l'ultimo e inonorato riflesso della società costantiniana. (3)
     Manifestamente Costantino, anche fra disparati giudizi intorno a talune sue doti personali o a singole azioni non sempre coerenti o lodevoli della sua vita, apparisce, dinanzi alla critica obiettiva, uno strumento in mano della Provvidenza. Egli, invero, ispirato dalla divinità (è l’espressione che volle scolpita sull'arco trionfale di Roma: instinctu divinitatis) ad accettare la Croce redentrice del genere umano, inaugurò in virtù di essa e per mezzo dell'impero di Roma, il rinnovamento sociale dell'antica civiltà. E ciò con tre fatti ben noti che basta qui ricordare, salvo poi di estimarne il valore e le conseguenze: - riconobbe la esistenza giuridica e la libertà della Chiesa cristiana-cattolica; - trasferì la sede dell'impero a Bisanzio come campo di sperimento più adatto alle prime e più essenziali innovazioni e correzioni dell'ordine politico, sociale, economico; - dischiuse le intime latebre della società e le alte sfere del pubblico reggimento all'alito vivificante di una scienza cristiana risanatrice del costume e del giure. Nulla più ma bastevoli provvedimenti, i quali, comunque procedessero per via mediata di autorità dal vertice dello Stato, tuttavia, congiungendosi con altre energie vergini risalenti dalle viscere delle popolazioni sotto l'azione immediata della fede e della Chiesa, avrebbero trasfuso e perpetuato sub specie aeternitatis i germi di quella vita immortale che ancora sostenta e feconda l'incivilimento, che ben è detto dai moderni sociologi, fra tanti contrasti e negazioni, pur sempre «cristiano». (4)
     Veggasi partitamente con poche e rapide proposizioni, con cui mi sembrano consuonare gli argomenti di una sociologia, che tesoreggia le inestimabili indagini della storia politica non solo, ma di quella sociale-morale dei popoli e così del diritto privato e pubblico, della economia e della psicologia sociale, in rapporto alla storia comparata delle religioni, giusta più recenti e sani indirizzi.
I.

    1. Dissi che per Costantino s'inaugurava un rinnovamento sociale-civile che procedeva mediatamente per opera e concorso dello Stato.
Il fatto caratteristico che ogni altro adombra e comprende nella vita delle stirpi e delle nazioni stesse più civili dell'antichità pagana è il panteismo di Stato, che è figlio alla sua volta di un altro panteismo che lo precede e accompagna: quello religioso. (5)
Come il panteismo religioso immedesima Dio creatore coll'universo creato, e più particolarmente il sovrannaturale divino con la natura umana, sia nelle grandi religioni storiche pseudo-monoteistiche dell'oriente asiatico sia nei culti politeistici di Grecia e Roma, così, con inscindibile correlazione logica e positiva, si incontra in tutto il paganesimo lo Stato tendere, per vie diverse ma inesorabilmente, a stringere e confondere nei suoi poteri giuridico­coattivi anche l'autorità religiosa e poi ad assorbire, nell'unità del suo organismo politico e nella sua azione onnipotente, tutto intero l'uomo ed ogni derivazione e manifestazione della vita sociale.

    2. Le forme sotto cui si presenta la fisonomia bifronte dell'antico panteismo politico, possono variare negli accidenti e nel grado d'intensità, non già cancellarsi. Dal «figlio del cielo», come si nomava da parecchi millenni fino a pochi mesi or sono l'imperatore della Cina, che la pienezza di sua autorità derivava dal fatto di essere «l'unico sacrificatore» in nome dell'antichissimo e immenso suo popolo, alle caste religiose braminiche che attraggono oggi ancora, come in passato nel proprio circolo chiuso, i principi o raja dell'India, e alle possenti classi sacerdotali che circondavano e perpetuarono nella propria immobilità le ventidue dinastie dei faraoni, sempre si riproduce questo spettacolo nelle sedi di que' grandi culti dell'oriente, che la religione a vario grado si immedesima con la politica; o perché ambedue si identificano nella persona del reggitore dello Stato, o perché lo Stato totalmente si sommette alla suprema autorità delle classi ieratiche, o più spesso perché lo Stato assoggetta e fa servire ai propri fini politici sacerdozio e vita religiosa.
    Né diversamente nei culti e negli organismi minuti e frazionati dell'occidente. Sia presso i regoli guerrieri del poema omerico sbarcati nella Troade contro Ilio, o sia nelle incipienti repubbliche civiche poi confederate nella grande Grecia, sempre i lari e penati dei culti domestici e i custodi del Pritaneo e gli dei tutelari delle leghe anfizioniche e Apollo negli oracoli del tempio di Delfo, intervengono nei fasti degli Stati ellenici, attestando tutti questa medesimezza della vita politica con quella della religione, anche nelle popolazioni spigliate, mobili ed espansive dell'età classica. (6)
     In nessun altro Stato dell'antichità classica questa identificazione o assimilazione dell'elemento religioso con quello politico assume un atteggiamento così scolpito e segue vicende così continuate quanto in Roma, sino a porger l'esempio più grandioso che la storia ricordi della formazione di una religione nazionale a servizio della missione storica del popolo romano. E ciò nel triplice periodo - del patriziato originario immedesimato col culto domestico sotto i re, alla lor volta investiti di autorità religiosa, - poi delle prime espansioni della repubblica in Italia mercé le federazioni di città, accompagnate da alleanze dei rispettivi numi in forma di religioni intermunicipali, - infine delle grandi conquiste fuor d'Italia le quali inaugurano un regime di tolleranza di ogni culto, innestando tutte le divinità dei popoli assoggettati al tronco delle deità romane per farne una religione politeistica universale, immedesimata coi destini dell’Urbs. Tutto ciò l'impero, in mezzo allo scetticismo trionfante, non rigettò ma anzi tesoreggiò a servizio della nuova e più accentrata costituzione politica; sicché Cesare iniziò e strinse nelle proprie mani il nuovo ordinamento imperiale, facendosi primamente eleggere pontifex maximus; Augusto comprese nel suo vasto ordinamento politico amministrativo di Roma imperiale quello pure del culto tradizionale atteggiato ad universalità per cui il jus publicum rimase anche allora «jus sacrum»; ed anzi, a raffermarne la maestà, ognuno degl'imperatori successivi assunse il titolo di «divus», sino a che Diocleziano aggiunge al culto personale dell'imperatore così divinizzato le pompose cerimonie dell'antico panteismo religioso orientale.

    3. In tale concetto religioso della compenetrazione di Dio col mondo e quindi dei poteri divini con quelli umani, sta il segreto che spiega l'assorbimento di tutto l'uomo e con esso di tutta la vita morale e giuridica della società nello Stato, che è la nota scolpita ed obbrobriosa dell'antichità pagana.
    Per chiunque, infatti, si trovi alla testa di una società per reggerne le sorti, sia esso il capo di una primitiva famiglia patriarcale ove il padre è ad un tempo sacerdote, re e padrone, sia il collegio che presiede ad una repubblica civica, sia il monarca di un regno o di un impero, - fra il duplice concetto di considerarsi semplicemente l'interprete e il ministro della legge morale divina, ovvero la fonte stessa immediata e l'arbitro dell'autorità propria imperante e coattiva, è breve il passo. Ma immensa e fatale ne è la conseguenza: essa si traduce nella onnipotenza illimitata di chi comanda e nell'asservimento completo di chi è soggetto e deve obbedire.
     Si inganna chi per poco si arresti dinanzi alla parola libertà che sovente e solennemente s'incontra negli Stati dell'antichità classica: essa allora significa la facoltà o la richiesta di partecipare al governo dello Stato o della pubblica cosa da parte di singoli cittadini e ceti sociali nei comizi o magistrati, non mai s'intende come facoltà dei cittadini di porre un limite all'azione dello Stato, la quale, viceversa, era invadente in tutti i penetrali della vita privata e sopprimeva ogni autonomia personale e sociale, ossia ogni libero svolgimento di energie convergenti al progressivo asseguimento di fini propri inerenti alla natura dell'uomo e della società, ben distinti da quelli dello Stato.
     Così lo Stato antico si insinua nelle coscienze ed impone il culto unico nazionale e sopprime la libera adesione dello spirito interiore a Dio; esso coi suoi censori è l'unico custode e moderatore del costume; esso potenzialmente si afferma dispositore dei beni economici privati e pubblici; esso soprattutto è l'autore e dispositore a suo libito del diritto. Come tale impartisce il diritto, cioè le facoltà giuridiche anche private, ai pochi che partecipano al governo pubblico e ne godono i benefici col titolo di cittadini; lo disconosce o revoca a sua discrezione alle moltitudini; lo sottrae in radice a quanti sono dichiarati schiavi; lo nega allo straniero, perché esso è a beneficio esclusivo dei cittadini e si arresta ai confini dello Stato, e al disopra di questo diritto positivo, uscente dalla onnipotenza dello Stato, scompare ogni diritto di natura inerente all'uomo ed al consorzio sociale.

    4. Tuttavia tale triplice servitù - della vita morale spirituale, degl'interessi economici e delle facoltà giuridiche - nelle ferree braccia dello Stato antico, la quale si risolve nella negazione della natura umana e della società universale e di ogni sua libera esplicazione di conformità alle leggi eterne del Creatore, se era il risultato inesorabile dei concetti intorno all'ordine politico del paganesimo, non ne era certamente l'unica manifestazione.
    Viene un momento critico nella storia delle stesse società classiche, in cui il decadere dei culti che dall'origine informavano quel panteismo politico, apre il varco al grido della libertà nelle moltitudini nel tempo stesso che la filosofia disvela nel fondo dell'anima i diritti dell'uomo e dell'umanità. Accenno all'anticipata elevazione della individualità in Grecia sotto l'impulso dell'attività commerciale, ed alle ascensioni democratiche in quei governi repubblicani, accompagnate dalle dottrine delle scuole filosofiche che vanno da Socrate ad Aristotele e Zenone. Esse trovano riscontro nelle lotte della plebe in Roma per l'acquisto dei diritti di cittadinanza, sorrette dalle conquiste politiche in Italia e fuor di essa in tre continenti, le quali ponevano a contatto i popoli più diversi per culti, razze, civiltà, disvelando il fondo comune di un jus gentium che avrebbe ampliato indefinitamente il jus civile di Roma antica.
    Ma se questo prorompere e contendersi di energie poteva avvantaggiare il diritto consuetudinario fra i cittadini di Grecia, o quello privato scritto di Roma, - non mai le democrazie trionfanti nelle repubbliche elleniche o la conquista finale da parte della plebe del diritto di suffragio e di magistrato, riuscì definitivamente a sminuire la onnipotenza dello Stato panteistico, anzi concorse per altre vie ad accrescerla e peggiorarla. Perocchè quel pareggiamento di tutti i cittadini dinanzi alla funzione di Stato, introducendo una eguaglianza individualistica nei diritti pubblici della cittadinanza, in mezzo ad essa non rimase altra distinzione gerarchica che quella della ricchezza accentrata e del pauperismo proletario! E allora di mezzo alle lotte di classe, alle guerre civili e rivoluzioni sociali fino all'anarchia, sono le moltitudini medesime in Grecia che invocano i tiranni, come sono gli imperatori in Roma che si impongono a tutto il popolo romano, di cui presumono di compendiare nella propria persona tutti i diritti in nome dell'utile pubblico rappresentato dalle maggioranze dei cittadini. Così attraverso l'individualismo egualitario, si ritorna fatalmente al panteismo di Stato; pel quale viene prestamente l'ora tragica e ineluttabile in cui scompare di nuovo ogni libertà, ossia ogni facoltà morale, giuridica ed economica inerente all'uomo ed alla società, ingoiata nella onnipotenza personale dell'imperatore. Trapassato invero il secolo aureo degli Antonini, che fu pur quello della sapienza giuridica del senato imperiale alla fine del secolo terzo, Diocleziano impersona la sentenza quidquid placuit principi legis habet vigorem.
    La vita e la morte, i beni e i diritti privati dei cittadini sono nelle mani del despota, i magistrati tradizionali vengono sostituiti da una burocrazia di corte, le autonomie municipali cadono sotto i servizi pubblici obbligatori delle curie, la cultura dei campi s'immobilizza colla servitù della gleba, il commercio rimane irrigidito sotto la celebre tariffa dei prezzi, ogni attività economica si arresta sotto la rete ferrea di un esauriente sistema finanziario e gl'incensi di adorazione alla persona dell'imperatore, insieme alla persecuzione rinnovata ai cristiani «nemici dell'impero», si aggiungono a dimostrare che tale riproduzione in Roma delle autarchie divinizzate dell'oriente era pur sempre il prodotto dell'antico panteismo religioso pagano.

II.

    1. Occorreva pertanto risalire ad una religione divinamente vera e perfetta, e per ciò stesso totalmente scevra dagli errori delle teogonie pagane, per rinvenire il rimedio di un vizio congenito, il quale, attraverso lo Stato panteistico, prodotto del panteismo filosofico-religioso, avea ammorbato tutto l'ordine umano dell'antica civiltà, fosse pur quella dell'Asia anteriore, di Grecia e Roma, ormai assimilate nei comuni destini. Tale fu il cristianesimo, - il quale trasse la verità, liberatrice da tante aberrazioni dottrinali così infeste all'uomo ed alla società, dalle sublimità del sovrannaturale rivelato, - iniziò l'opera risanatrice mediante una istituzione affatto originale, la Chiesa e sprigionò dal seno dell'umana convivenza energie affatto nuove per la loro efficacia morale-religiosa e per la loro fonte e direzione, perché esse non scendevano più dall'autorità esterna dello Stato, ma salivano su dall'uomo interiore e dai primi filamenti della vita sociale. (7)

    2. Principi e popoli nell'ampio giro dell'impero pagano, che per lungo tempo ancora ignorarono «la luce redentrice» che si era accesa in Palestina, - non avrebbero mai sospettato che nel tesoro inesausto delle «verità antiche e nuove» (vetera et nova) del cristianesimo, questo racchiudesse anche esplicite dottrine dirette contro quella esiziale compenetrazione organica della politica con la religione. Eppure fin nei primi documenti sacri, nel Vangelo e negli Atti degli Apostoli, compaiono sentenze ricche di una divina virtù medicatrice di quel malore cronico.
    Certo, nemmeno i credenti nella Buona Novella compresero, se non dietro la tardiva lezione della esperienza, e forse (sia lecito aggiungere) nemmeno oggi la critica scientifica apprezza bastevolmente  la rivoluzione delle idee, che stava per apportare ed effettivamente arrecò la parola di Cristo Gesù: «Date a Cesare ciò che è di Cesare e a Dio ciò che è di Dio». Vi ha un regno terreno, che deve tenersi distinto da quello celeste, e d'ora innanzi la Chiesa non si confonderà con lo Stato; ecco la nuova dottrina per la quale era per sempre ferito nel cuore il panteismo politico religioso dello Stato pagano.  Verità nuova negatrice di informi e mortiferi connubi che va integrata dall'altra dottrina positiva e ricostruttrice contenuta nelle proposizioni di S. Paolo: «Non vi è più né giudeo, né greco, né libero, né schiavo, né maschio, né femmina, né distinzione di doni e ministeri, ma siamo molti in un sol corpo, in Cristo, e membra gli uni degli altri. Egli, dei diversi popoli, fece un solo, togliendo ogni separazione che li divideva, facendoci tutti della famiglia di Dio, rinnovando l'umanità». Espressioni mirabili non mai da filosofo alcuno finora pronunciate in modo sì palese, ardito e solenne; le quali non solo proclamavano la fraternità umana nella comune eguaglianza morale sotto la paternità divina, ma che ancora venivano a significare un altro vero fondamentale collegato col primo e del pari sorprendente. Per esse si proclama che esistono sulla faccia della terra degli enti e circoli naturali di primigenia autonomia, da un canto l'individuo nella famiglia, e dall'altro le spontanee e storiche derivazioni di questa, le classi, le convivenze locali, le nazioni, donde la società universale; istituzioni storiche che lo Stato non crea e non può quindi distruggere o sconvolgere; e che per ragione di fini sono, anzi, anteriori e superiori a lui; e che pertanto esso ha il dovere di riconoscere, tutelare e avvalorare nel loro normale svolgimento; e davanti a cui necessariamente si arresta l'arbitrio del legislatore e dello statista. In altre parole: rimase così distinto non solo lo Stato dalla Chiesa, ma lo Stato dalla società, in questa insinuando e consacrando un principio di libertà che limita la stessa autorità dei principi e pone così un freno intrinseco ad ogni panteistico assorbimento politico.  Che se queste libere facoltà umane e sociali che si immedesimano con un diritto di natura, di cui la prima è la libertà dell'anima in ordine ai fini sovrannaturali ed a quelli stessi essenzialmente spirituali dell'incivilimento, si trovassero violate dalla prepotenza del legislatore umano, allora sovviene, ispiratrice della fortezza cristiana, la sentenza che ogni altra sanziona, quella contenuta nella intimazione di s. Pietro: «E’ necessario obbedire prima a Dio e poi agli uomini»; la quale pone una terza distinzione fra il diritto naturale, riflesso della legge eterna di Dio, è il diritto positivo, norma subordinata e transeunte del legislatore umano, che a quella non può contrastare; prevenendo, così, anche gli abusi di fatto del dispotismo panteistico di trono o di piazza. (8)
    Potevasi delineare meglio, che non facesse questa novella fonte di autorità trascendente, il futuro ordine di civiltà, destinato a poggiare ormai sulla distinzione dei fini, degli organi e delle funzioni sociali? (9)

    3. Tuttavia tale inattesa idea archetipa, rivelata dalla parola divina, dovea pure trapassare e scolpirsi nella coscienza degli uomini per tradursi in un fatto reale, vivo e duraturo della futura società. Tale fatto si adempiè durante il periodo delle persecuzioni in odio ai novelli credenti, a questi «nemici del genere umano e dell'impero» con cui la espressione, allora, compenetravasi. Avvenimento inatteso esso medesimo, perché la tradizione di tolleranza di Roma antica verso tutti i culti forestieri, che essa si accontentava di aggiungere a quello delle divinità civiche e nazionali e che anzi si era tradotta in indifferentismo sistematico di Stato al tempo dell'impero, si trovò di un tratto, converso nel proposito di distruzione inesorata e cruenta di un unico culto, quello di Cristo. Avvenimento tuttavia rinnovatore per la genesi della società dell'indomani; perocchè, per la prima volta, attraverso otto persecuzioni che insanguinarono quasi tre secoli per suggellare nel supremo sacrifizio della vita la professione della fede soprannaturale, si fusero insieme l'oriente e l'occidente, i romani e i barbari, la canizie e la gioventù, il levita e le semplici moltitudini, il guerriero, il magistrato, il dotto, le matrone e le donzelle, il patriziato e il popolo, i rappresentanti di ogni età, di ogni classe e stirpe; con quel battesimo di sangue, segnando per sempre la suprema distinzione fra la società pagana e la cristiana e in questa fecondando i germi di una civiltà universale.
    Né basta: definitivo deve chiamarsi questo avvenimento delle persecuzioni anche di fronte alla idea panteistica informatrice di tutta l'antichità. Dopo il lungo corso di esse il mondo stupefatto aveva scorto tre risultati opposti ad ogni esempio del passato ed alla comune aspettazione: il numero dei fedeli cristiani si era moltiplicato dovunque come fioritura primaverile, sicché alla fine del secolo IV i cristiani s'incontravano diffusi ben oltre i confini dell'impero latino; ciascuno di essi aveva affermato la inviolabilità della propria coscienza individuale mediante il primo e massimo diritto di credere in Dio, sotto lo sperimento del dolore, fino al martirio; e simultaneamente si era veduta la gerarchia ecclesiastica, approfondendo silenziosa le proprie radici nelle popolazioni, precedere e guidare con calma imperturbata questa mirabile espansione di energie spirituali nei popoli, senza soccorso di governi ed anche di contro ad essi. Quale maggior testimonianza della sorgente sovrannaturale della religione cristiana, della naturale libertà dell'anima e della esistenza effettiva, dotata di vita propria indipendente, della Chiesa cattolica, al di fuori e al di sopra degli ordinamenti di Stato?
    Quale dei sociologi veramente positivi non riconoscerebbe che propriamente in mezzo a quella immane opera distruttiva delle persecuzioni doveano porsi anco le fondamenta e costruirsi le mura maestre della novella società e civiltà cristiana?

    4. La parola di Dio non dice solamente ma crea; né soltanto all'origine dell'universo, ma lungo la vita del genere umano nei secoli, e più manifestamente nella genesi del fatto massimo e centrale della storia, il cristianesimo, anzi in ogni ciclo storico successivo di esso. (10)
    Così propriamente al chiudersi del periodo delle persecuzioni ai primi del secolo IV, né senza concorso di Costantino, salito in quegli anni allo scettro dei Cesari, e dell'azione sua pacificatrice della società e riordinatrice dello Stato, non escluso il fatto della traslazione della capitale dell'impero sul Bosforo, vengono a delinearsi nel circuito stesso dell'impero (per poco nelle mani di lui e dei suoi successori unificato) que' due cicli storici che additammo dapprincipio, ma che ora si distinguono anche per la duplice opposta vicenda con cui si svolgono, alla distanza di poco più di un secolo dai grandi avvenimenti costantiniani. L'uno di essi, col suo centro di gravità in Roma, precipita all'occaso, in cui si spegne il vecchio mondo pagano nell'occidente; l'altro, aggirandosi intorno a Bisanzio, affretta l'aurora, che disveli l'ascensione già reale, progredita ed alacre del giovane mondo cristiano nell'oriente.
    Avvertasi bene: a questo momento che ben potrebbe dirsi critico della storia («tournant de l'histoire» , «Zeitwende»), non sono più semplicemente due ordini di idee religiose che si trovino in conflitto in cui versavano già da trecento anni; ma si tratta ormai di due immensi e complessi fatti di vita politica, sociale e di cultura, fra loro in pieno e decisivo contrasto; dei quali, nel longevo e persistente attrito delle tendenze contrarie, l'uno, con la caduta dell'impero di occidente, trascinerà nella inanizione una civiltà che compendiò in sé tutto il passato, l'altro, entro la parabola della età costantiniana, affermerà la esistenza effettiva e vitale di una civiltà, che già promette di avere con sé tutto l'avvenire. L'idea pagana potrà rinascere più tardi nell'occidente, tramutata sotto la veste letteraria, artistica e di cultura; l'idea cristiana; nella sua interezza vivente nel cattolicesimo, troppo presto nell'oriente potrà tralignare e menomarsi, ma i destini del paganesimo, come religione e civiltà insieme, di fronte al cristianesimo, furono fra il principio del IV e la fine del VI secolo, cioè fra Costantino e Gregorio Magno, definitivamente risoluti e le popolazioni non mancano di avere del grande dilemma storico, alternamente, angosciosi presentimenti o radiose intuizioni. (11)

    5. La parte occidentale dell'impero che gravitava verso Roma ove il paganesimo fin dalle origini confuso con lo Stato, con la società, con le conquiste e glorie delle aquile e delle leggi latine avea profondato le millenarie sue radici, «questa parte, ripetesi, ­ scissa da gran tempo per costumi, indole, cultura, tendenze dal resto del mondo romano - più lontana dal movimento commerciale e dalle sempre vive fonti della ricchezza d'oriente e che avea di fronte la forte Germania, madre inesausta di falangi barbariche non mai completamente vinte... appare subito destinata a più rapida decadenza della parte orientale». E i sintomi che, paurosi, incombono fin dal tempo di Diocleziano, si addensano e premono negli ultimi due secoli, annunziatori della fatale ruina.
   «Dai monumenti, dai poeti, dagli storici, dagli scrittori asceti, dai legislatori, dalle iscrizioni pare sorga un coro confuso di voci, di lamenti, di pianti, che dica: Roma muore! La vecchia Roma si vedeva contesa dalla nuova in Costantinopoli l'importanza di capitale del mondo non solo; ma Milano e Ravenna ospitavano gl'imperatori che avevano lasciato le infide e deboli mura romulee.
      «L'ultimo grande principe era stato Teodosio I che aveva affidato l'occidente, più che all'ignavia del figlio Onorio, al valore del barbaro Stilicone... Fantocci coronati si succedevano sul trono insanguinato fino all'ultimo Romolo e il vecchio ideale della maestà romana, cosi nobilmente serena e sfolgorante nelle figure di Traiano, di Nerva, di Antonino Pio e nei concetti austeri di Marco Aurelio, si spegneva nella abiezione degli ultimi Cesari». Sotto il regime di un regolamentarismo amministrativo ogni reliquia di libertà personale e locale scompare inesorabilmente; «l'uomo è avvinto alla terra, il proprietario alla curia, l'operaio al collegio corporatizio, il soldato all'esercito di padre in figlio eternamente».
    Immensi i bisogni dello Stato pericolante per le guerre interne e le invasioni dal di fuori, per lo sperpero della corte e dei cortigiani, per l'alimentazione delle ignave plebi urbane, per il continuo riscatto che Roma doveva pagare ai barbari minacciosi. La fiscalità domina tutto e, sotto la rapacità degli esattori, si esauriscono le fonti private e pubbliche della ricchezza.
     Le terre, abbandonate e deserte, si accentrano in giganteschi latifondi che ingoiano il campicello del minuto proprietario, ceduto al ricco, per averne protezione a prezzo della propria libertà; e le classi doviziose, aliene e rifuggenti ormai dagli uffici pubblici, si estinguono nell'ozio ignominioso, corruttore. Tutto in esse scomparve: la virtù antica, la fortezza, la gloria, la potenza; il solo vizio rimase, mentre il popolo romano, furente per il gioco, per il circo, pei teatri, «vuol morire ridendo». Ma le istituzioni, un tempo meravigliose del mondo, sono larve di ciò che furono un dì e tutto al di dentro vacilla sotto la impotenza degl'imbelli reggitori e dal di fuori gl'incessanti assalti degli invasori che penetrano i confini, che assorgono ai magistrati, afferrano le supreme dignità di Cesare e di Augusto, tramutano gli ultimi due secoli dell'impero in una lotta tremenda fra civiltà e barbarie; una immensa desolazione occupa il grande animo romano che nello scetticismo di un culto ormai vuoto di contenuto e di valore politico «non trova nemmeno la virtù di spegnersi con decorosa dignità» pago di ripeter con Claudiano: «Hei mihi, quo Latiae vires urbisque potestas decidit! In qualem paulatim fluximus umbram» (Bell. Gild. 44-5); attendendo esterrefatto l'ultimo anelito dell'«agonia di Roma». Al più triste tramonto che conosca la storia, sola assiste confortatrice pietosa l'idea cristiana, già dal tempo di Nerone accesa e diffusa negli intimi penetrali di Roma. «Essa quasi si nasconde nei giorni trionfanti della maestà imperiale..., ma più viva scintilla quando le tenebre scendono sul decrepito mondo e finalmente, come la mistica lampada dei sepolcreti, la illumina nell'ora solenne» (12) della morte, quasi simbolo di più sublime risurrezione. Quando a Girolamo nel deserto giunge all'orecchio che Roma è presa e saccheggiata da Alarico, i singulti gli strozzano la voce: e presa la città che ha soggiogato tutto il mondo!...; e soggiunge: poiché fu troncato il capo del romano impero e, per dire con più verità, tutto il mondo è perito in una sola città, tacqui e mi umiliai! Né men tocco dalla gravità della sciagura di Roma fu il suo contemporaneo Agostino che sentivasi anch'egli romano e già inebriato dell'idea di un impero cristiano universale, destinato a riunire nella Chiesa la grande famiglia dei popoli. Essi erano, in quel momento, gl'interpreti del pensiero e del sentire cristiano intorno alla disparizione di Roma antica, ma ancora i profeti che nella nuova filosofia della storia preannunziano le sorti dell'eterna città. (13)

    6. Se tale fu nell'occidente, durante il decadimento finale del paganesimo, la posizione di propaganda tranquilla di dottrine e di virtù da parte dei cristiani, posizione la quale assunsero e mantennero lungamente i fedeli, il sacerdozio, i pontefici stessi nella vita nascosta delle catacombe e delle prime chiese di Roma, tutti intesi a rinnovare dal profondo le anime, a sublimare con la grazia la umana dignità, a fecondare col sangue i primi germi di una società nuova, in quell'antica capitale che avrebbe tenacemente protratto costumi e pensieri pagani ancor per secoli dopo la scomparsa delle sue istituzioni politiche, ben diverso apparisce dalle origini l'atteggiamento del cristianesimo nella parte orientale dell'impero. In questo oriente non mai oblioso della primitiva rivelazione, sempre tormentato dall'ansia del misticismo, insieme alle memorie solenni dell'antico «popolo eletto» sopravvivevano non pochi ideali filosofici ed estetici della diffusa cultura ellenica a predisporre una più facile e larga accoglienza alla «Buona Novella». Ma ben altri e immanenti fattori la preparavano prossimamente. Ivi era stato da Gesù Cristo predicato il regno di Dio e si udirono di sua viva voce le parole redentrici che annunziano la pace agli uomini di buona volontà, che si rivolgono agli umili ed afflitti, che parlano non di violenze ma di amore ed invitano le plebi e gli schiavi a levare lo sguardo non al trono dei potenti ma al Padre che è nei Cieli. Ivi si manifesta tosto e pubblicamente la Chiesa, nei suoi apostoli e nel suo capo, alle genti di lontane regioni nel dì della Pentecoste in Gerusalemme, e si afferma col primo concilio ivi pure adunatosi; di là s'irradiano gli apostoli medesimi per la predicazione in tutta la terra, e di là, in specie, si dipartono i viaggi di Pietro e Paolo, nei paesi circummediterranei, prima di fermarsi in Roma; entrando essi e i loro discepoli nelle città di Antiochia, di Efeso e della Grecia; ponendosi così a contatto delle grosse agglomerazioni popolari, dei gruppi procaccianti della «diaspora» israelitica, delle classi colte neo-pagane nell'Areopago di Atene e nelle scuole disputanti di Alessandria, non solo ad annunziare la fede, ma a difenderla e ad avvalorarla con la carità e con lo sperimento delle opere, sulle tracce del divino Maestro, che nella sua vita pubblica passò beneficando. Così la Chiesa nell'oriente comparisce fin dalla origine alla luce del sole e in questo ambiente cresce di autorità dottrinale e di efficacia pratica, stringendosi direttamente e palesemente alle popolazioni, sopra delle quali dispiega una funzione educatrice spirituale e sociale insieme, in virtù di una missione che le proviene da una autorità suprema interiore che l'avviva, solo troppo spesso impedita esteriormente da legali restrizioni o da violente persecuzioni dello Stato. Arriva però un momento solenne in cui la Chiesa, dopo di avere per quasi tre secoli, specialmente in questa parte orientale dell'impero con un'azione mite ma aperta ed efficace, disseminato germi di vita e di opere salutari nelle moltiplicate comunità cristiane che circondano il mediterraneo levantino, col linguaggio silenzioso ma irresistibile del fatto, invoca di imprendere nella sua immensa carità per mezzo dei suoi leviti, dei suoi vescovi uniti al pontefice sommo, in una organizzazione gerarchica già cresciuta adulta, d'imprendere (ripetesi) un'opera più libera, continuata, sicura di rigenerazione sociale. Che cosa significano questi sentimenti, bisogni e reclami, che fermentano vieppiù alla vigilia della vittoria di Costantino contro Massenzio e prorompono dopo di essa? Tutto ciò annunzia la epifania sociale del cristianesimo; è la manifestazione di una palingenesi della società sotto la guida spontanea ma possente della Chiesa che ora s'impone alla universalità come già si era affermata nelle regioni orientali dell'impero.

    7. Orbene: in questo momento supremo intervenne Costantino col suo editto di Milano del 313, ripubblicato in Nicomedia, con cui non fece che sanzionare il voto e il grido delle coscienze cristiane cui anticipatamente faceva eco tutta una futura società che da Cristo attendeva la sua rigenerazione. Egli guarentisce con la legge un diritto che era già in gran parte nel fatto, non solo concedendo libertà del culto ai cristiani, ma ancora riconoscendo nella Chiesa, con la personalità giuridica, la sua indipendenza. Ciò egli fece con crescente convincimento della giustizia dell'atto, se non della grandezza delle sue conseguenze, cosicché, assicurata così giuridicamente ad essa la facoltà per diritto proprio di esercitare liberamente la sua missione religiosa nel mondo, si adoperò a renderla più compiuta ed efficace dichiarandosi defensor ecclesiae mercé la cospirazione dei poteri civili ai fini più elevati spirituali ed universali di essa, finché Teodosio I proclamò il cattolicismo religione di Stato. Politicamente Costantino ebbe frattanto l'intuizione della virtù nuova che d'ora innanzi il cristianesimo e la Chiesa avrebbero apportato alla ricostituzione degli Stati e per ora dell'impero, il quale, fra sinistre e non sempre incolpevoli vicende, ne ritrasse protrazione secolare di esistenza.
    Sociologicamente egli con l'editto spostò l'asse intorno a cui si sarebbe aggirata, rispetto all'antica, la nuova civiltà, non più considerante solo Stato, ma l'uomo e la società, sotto l'azione diretta e indefinitamente espansiva dei fattori spirituali di cui è custode e rappresentante la Chiesa.
    Ma di ciò aveva Costantino piena coscienza? Certo è che dai suoi primi provvedimenti legislativi, suggeriti a lui dalla fede e dall'ossequio alla Chiesa, rimaneva consacrato con la maestà stessa delle leggi quel principio nel Vangelo primamente annunziato, il quale, nell'atto stesso che infrangeva la tirannia del panteismo politico di tutta l'antichità pagana, avrebbe deposto in seno all'umanità un lievito di libertà capace di apportare una felice rivoluzione nell'ordine sociale-civile. Tale principio ora proclamava «che la religione non è più lo Stato, che obbedire a Cesare non è più la stessa cosa che obbedire a Dio e che se il cittadino deve allo Stato la sua sudditanza ed anche la sua vita, la parte migliore di sè, l'anima sua, rimaneva sempre libera per servire ad una legge morale che domina l'universo e governa la civiltà. Lo stoicismo aveva già attestato questa libertà come visione di alcune menti sovrane isolate e forse egoistiche, ma il cristianesimo ne avea fatto un diritto di natura e un patrimonio dell'intera umanità» (14) e l'avea consacrata con la parola divina, facendone custode e vindice la Chiesa stessa; ed ora questa preziosa conquista veniva suggellata legalmente dall'imperatore cristiano. Al principio rinnovatore forse Costantino venne meno più tardi e quello, nei secoli successivi, si trovò dovunque menomato e pervertito. Ma il principio era posto per sempre e frattanto, nell'età costantiniana, fruttificò immediatamente non solo a profitto della missione soprannaturale della religione, ma a bene duraturo della società attestando fin d'ora come il riconoscimento e il rispetto dei diritti di Dio sono garanzia di ogni diritto umano e di ogni progresso civile.

III.

    La promulgazione dell'editto costantiniano era un risultato e in qualche senso un premio delle virtù intrinseche del cristianesimo, il quale, penetrando nelle menti e nei cuori dei sempre più numerosi seguaci e irradiandosi con efficacia rinnovatrice nella società, avea imposto ai Cesari stessi un problema politico: se, cioè, meglio convenisse proseguire le persecuzioni fino a sradicare la novella religione, o piuttosto giovarsene come di un elemento restauratore dell'Impero nelle incerte sue sorti avvenire. Costantino (è convenuto) ebbe il merito incontestabile, che bastò ad elevarlo sopra a tutti i suoi predecessori, di scorgere nella Chiesa cattolica un'immensa forza vitale unificatrice dell'impero, insidiato da tante cause dissolventi irreparabili; con pensiero non dissimile da quello che spinge oggi le stirpi ed i governanti di Germania, della Gran Brettagna, dell'Unione nord­americana (all'opposto dei popoli e degli Stati latini) a guardare a Roma centro religioso e morale, per assimilare vieppiù le loro energie interne e così avvalorare le loro emule aspirazioni di imperialismo mondiale.
    Ma, per estimare gli effetti dell'editto costantiniano di libertà religiosa, conviene dapprima tratteggiare l'ambiente sociale in cui quella parola finalmente risonò; e ciò non solo per misurare i coefficienti e i reagenti dell'eco di essa in quel momento storico, ma soprattutto per estimarne le risultanze definitive nella continuità dell'incivilimento cristiano. Compito analitico e critico arduo e complesso, ma che qui a titolo di premessa, coll'aiuto di studi vastissimi, può forse ridursi a poche e bene assodate proposizioni.

1. Vi ha alcunché di comune, nei tratti che contrassegnano la società del tempo costantiniano, fra la parte orientale ed occidentale dell'impero da Costantino per poco unificato.
     In prima un complesso di elementi sociali che si ricongiungono alla vita politica del popolo romano come substrato e spirito informativo di essa. Non a torto si avvertì come due indirizzi massimi e tenaci guidarono la costituzione di Roma dalle sue origini fino a Costantino. L'uno è quiritario, connaturato con le famiglie patrizie fondatrici di Roma, incardinato sulle curie sotto i re, chiuso nelle maggiori magistrature sotto la repubblica e prevalente nel senato dei migliori tempi imperiali; con tendenze resistenti di aristocrazia, di predominio privilegiato e di esclusività nazionale, le quali, nelle stesse espansioni storiche del popolo romano-latino, tutta la vita di questo mirano ad incentrare nei diritti giuridico-politici dell'Urbs. L'altro indirizzo è etnico-universale e perciò democratico, eguagliatore, diffusivo, che sotto i re ammette al di dentro i forestieri a trafficare, nella repubblica la plebe e le classi borghesi a salire alle magistrature e, infine, nel periodo delle grandi conquiste, specie sotto l'impero, tutte le razze e le nazioni a partecipare al diritto o almeno alla potenza civilizzatrice di Roma, che si riassume nell'imperialismo sull'orbe. I due indirizzi si alternano e contemperano nei secoli; ma ora con Costantino trionfa definitivamente il secondo, perché all'imperialismo politico, che sotto lo scettro dell'imperatore unifica le razze, si aggiunge il concetto di un imperialismo religioso-simbolico che vede incipiente e profetizza completa la unificazione di ogni stirpe e della umanità universale nella fede cristiana e nella Chiesa in Roma «onde Cristo è romano». Tale coincidenza di tradizioni del passato e di previsioni dell'avvenire nella persona dell'imperatore fattosi cristiano, servì a rinsaldare la compagine e ritemprare la vitalità dell'impero in quel momento storico, ma ne mutava per sempre la base e il vertice di cospirazione finale. E d'ora innanzi, ogni qualvolta il grande Stato imperialistico riunificato da Costantino o comunque ricostituito dai suoi prossimi o lontani successori, devierà dalla novella missione di conferire alla civiltà cristiana, la Chiesa abbandonerà ai propri destini ora l'impero di Onorio e di Augustolo in occidente, ora quello di Arcadio e dei bizantini in oriente, non meno che quello degli Hohenstaufen nel cuore dell'Europa medioevale; perché al di sopra di tutti i concreti ordinamenti politici transeunti per l'esaurirsi della rispettiva vocazione storica, si perpetui e sorvoli l'universalità morale del cattolicismo inscindibile dall'incivilimento. Questi disegni stessi, provvidenziali dopo l'editto, vennero più palesemente ad incombere sulle riforme e sulle opere politiche di Costantino.

    2. Ma al di fuori della politica propriamente detta, un'altra condizione di fatto si accomuna a tutte le parti dell'impero e ne corrode le fondamenta nelle radici stesse della società: quella comprensiva di una crisi sociale che coinvolge tutti gli elementi e i fattori dell'essere e del vivere civile, dalla composizione demografica allo stato del territorio ed alla economia privata e pubblica, fino alle istituzioni etico-giuridiche e alla religione; condizione patologica che si protrae e acutizza fino ai tempi costantiniani.
    La popolazione, nell'immenso giro di quello Stato intercontinentale, abbracciando genti di ogni razza e grado di civiltà, ammettendo da tempo e tuttora, entro i vasti confini dell'impero, l'insediamento d'intere popolazioni barbariche, inscrivendo (dopo Commodo) nell'esercito regolare i barbari stessi se preparavasi così ad accogliere nel proprio seno un senso crescente di cosmopolitismo, perdeva tuttavia della sua omogeneità compositiva originaria già di lunga mano acquisita (fra romani, latini e italici), dissipava le sue originali tradizioni storiche (armi e leggi), smarriva la coscienza di una speciale missione così solenne (tu regere imperio populos, romane, memento); e ciò non meno nelle vessate province che nelle capitali di Roma o di Costantinopoli; conglomerazioni indigeste di elementi i più diversi, antichi e nuovi, attratti dalle pompe orientali della corte imperiale, dal lusso sfacciato di famiglie e ceti ambiziosi, dalla cupidigia di speculatori e avventurieri, dalla sordida miseria delle plebi.
    Bensì l'impero, se quantitativamente si incrementava di genti conquistate o introdotte dal di fuori, rimaneva al di dentro assottigliato e corroso dallo spopolamento, che già a Giulio Cesare aveva suggerito i rimedi inefficaci ed estremi della Lex Iulia et Papia Poppea, ed allarmato invano il primo imperatore Augusto, e che anzi procedette dipoi paurosamente verso un inesorabile esaurimento, sintomo di estrema corruzione e castigo di tutte le antiche società pagane, che il cristianesimo nascente non riuscì tosto ad arrestare.
    Di qui, in quelle popolazioni, specialmente delle città, voraci consumatrici di ogni ricchezza e dei capitali stessi accumulati col bottino e con la frode, il rallentarsi od arrestarsi dell'attività produttiva (non mai del resto molto elevata), e il connesso impoverimento generale, che pesava massimamente sulle campagne. Donde l'altro fenomeno demografico conseguente dell'inurbarsi dei volghi rurali, per il degenerare dei tipici contratti agrari, per il deperire delle minute proprietà contadinesche, per il dilagare degli schiavi al posto del coltivatore libero nei latifondi già denunciati come ruina d'Italia e delle provincie da Tacito, ma che raggiunsero il massimo di estensione desolatrice nei secoli posteriori; esodo dei lavoratori campagnuoli, che Diocleziano avea pensato di arrestare, fissandoli al suolo con la servitù della gleba.
    Di qui pure il retrocedere, nella parte occidentale e anche in quella levantina del mondo romano durante i lunghi secoli della decadenza dell'impero, verso una economia di natura sorretta da un regolamentarismo di Stato panteistico; retrocessione contrassegnata dai seguenti tre sintomi di estremo pervertimento economico. Il commercio era divenuto passivo (giusta l'espressione usata) perché le città e le regioni di consumo non ricambiano più le merci introdotte dai paesi produttori se non con masse monetarie, di cui, pertanto, quelle rimangono gradualmente spogliate; ciò che allora valse per tutti i grandi centri, ma specialmente per Roma e l'occidente rispetto agli estremi paesi orientali. Analogamente le specie monetarie nel centro dell'impero, sempre più scarse, rimangono il monopolio di un fascio sempre più esiguo di onnipotenti capitalisti viventi sulle operazioni finanziarie di Stato: i pubblicani esattori di tributi, gli appaltatori di forniture militari, i negoziatori del grano per il mantenimento annonario delle plebi. Infine le usure, esercitate da  questi stessi capitalisti tramutati in prestatori rapaci ai privati («manieurs d'argent»), cancrena originaria di Roma antica, ora dissanguano non la plebe soltanto, ma tutti i ceti, dalla domus sontuosa del patrizio all'ultimo casolare di campagna, e protrae peggiorato lo spettacolo obbrobrioso, già stigmatizzato da Giugurta, di un mondo venale alla balìa di inesorati creditori. E come ultimo e inevitabile risultato di simili degenerazioni che fanno capo alla deficienza del mezzo circolante, il ritorno alle abitudini primitive del consumo dei prodotti in natura sui fondi propri e della traslazione diretta delle merci e dei beni economici in società all'infuori (per quanto fosse possibile) di ogni espediente di scambi monetari; ciò che si riprodusse e protrasse fino oltre ai tempi di Costantino per il contributo stesso delle imposte.
    Ma ben più di tali malori economici, profonda e incurabile era la dissoluzione di tutte le istituzioni etico-civili che formarono per secoli il piedistallo e il fastigio della società e dello Stato romano: la famiglia e la religione. Quella lungamente integra e robusta; sorgente e custode del giure privato e pubblico dell'antica romanità, era pervenuta alla fine della repubblica e sotto l'impero, in forza del concubinato, del divorzio, del celibato licenzioso, al più completo e ributtante disfacimento. Questa, la religione, più che altrove (come si avvertì) compenetrata con gli ordini e coi destini politici del popolo romano, ma già insidiata dai culti etnici più differenti successivamente innestati sul proprio tronco originale, aveva perduto ogni carattere e valore nazionale per non rivelare, ai tempi imperiali, che la propria vacuità di contenuto dottrinale ed etico, oggetto del disprezzo delle classi colte, e di formalistiche pratiche superstiziose da parte dei volghi specialmente agresti, lasciando, compiacente, senza remora irrompere la più sfacciata e diffusa corruzione del costume; cosicché fu scritto che delle universali testimonianze della grandezza romana, quella che più a lungo sopravvisse fu la universalità di ogni vizio. Sopravvivenza di connaturati costumi pagani, così persistente e generale, che rimase l'ostacolo massimo alla piena conversione cristiana delle popolazioni, ben oltre i tempi costantiniani, e contro la quale si infransero le leggi degl'imperatori bizantini nei secoli successivi, trasmettendone tracce deleterie fino all'età moderna.

    3. Ma se questi sono i tratti essenziali della suprema crisi che affliggeva e pareggiava tutto il vastissimo dominio di Costantino nel secolo IV, le differenze accessorie, nelle manifestazioni caratteristiche di quella fra la parte occidentale dell'impero gravitante verso Roma, e l'altra che si sarebbe ognor più aggirata intorno a Costantinopoli, si possono compendiare in questo concetto: «che in quella la crisi si palesa di preferenza con la opposizione dei fatti, e in questa col prevalente conflitto delle idee». Nell'occidente, dove signoreggiò per secoli l'elemento latino positivo per eccellenza, la crisi si esplica da parte della società pagana con le persecuzioni violente anticristiane colà primamente iniziate, con le reliquie d'istituzioni politiche ivi più protratte e resistenti, con le osservanze di un culto ufficiale più a lungo riconosciuto e grandeggiante, coi resti di classi patrizie più intransigenti e tenaci nei loro tradizionali privilegi. Tutti atteggiamenti di fatto in contrasto quasi silente ma solenne, da parte delle società cristiane, con le affermazioni positive di una fede la quale si professa col morire, di una morale sublime che si insegna coll'esempio, di ammirande virtù religiose e civili che si attestano con la disciplina e l'obbedienza alle autorità fino all'eroismo. Ben diversamente nell'oriente imperiale, ove, lo spirito ellenico idealistico, versatile, vivace, espansivo, ma ancora sofistico ed infido (vizio più spiccato nella decadenza di Grecia dopo la conquista romana) aveva con la lingua, con la letteratura e l'arte colorito e impregnato la società latina e gettato il suo manto iridescente sul trono dei Cesari; dinanzi a cui tale spirito penetrante presentavasi come l'erede delle reliquie fuse e ravvivate di religioni trascendentali, di splendide culture e di leggendarie magnificenze della defunta civiltà asiatica nelle province da ultimo annesse all'impero. In queste regioni, pertanto, la società cristiana - già largamente diffusa - dovette, nell'intento di compiere e assicurare le proprie conquiste spirituali sul paganesimo, venire di più in più a contatto di esso attraverso una serie di battaglie d'idee e di coscienze, contro tralignate tradizioni etnico-religiose, di fronte a multiformi e capziose scuole filosofiche e in mezzo a sentimenti popolari in vario senso esagitati e confliggenti.
    Il cristianesimo stesso era si quivi largamente propagato, non sempre con le misteriose conversioni della più semplice predicazione evangelica, ma bene spesso, fra popolazioni colte, col presidio di sublimi e talora discusse esposizioni dottrinali sull'esempio di san Paolo nell'Areopago di Atene, e in tali regioni d'oriente, tanta parte della propria autorità sovrannaturale, la Chiesa, entro i primi secoli, dispiegò mediante i concili ivi più frequenti, per il bisogno di definire, ossia precisare, le verità dogmatiche col rigore di espressioni logiche, che contrassegna pure la elaborazione scientifica..

    4. Or bene, in grazia di queste battaglie d'idee (nell'ampio senso della parola) combattute e vinte dalla Chiesa, principalmente in oriente, quella crisi politico-sociale, che dicemmo comune a tutto l'impero pagano, si innalza colà fino al carattere di crisi di civiltà, perché si drizza ai più alti culmini della vita dello spirito nei popoli.
   E tre furono i massimi focolari di questa vita combattiva spirituale che, nei paesi circummediterranei volti a levante, accesero e proiettarono la loro luce più o meno sinistra fin oltre i tempi costantiniani:
      l'ebraismo come programma tradizionale etnico religioso del popolo israelitico. Nel seno di questo, dopo la caduta di Gerusalemme sotto il giogo romano, dopo la dispersione violenta e i repressi tentativi di riscossa, i farisei conservatori, scissi in due partiti, l'uno, dei maggiori possidenti e dignitari, più aristocratico e prudente dinanzi allo straniero, l'altro, più popolare, più audace e rivoluzionario (i zeloti), vagheggiavano pur sempre la ricostituzione politica del regno di Salomone immedesimato col culto formalistico più rigido dell'antica legge; i sadducei progressisti, più tiepidi sulle sorti avvenire di lor religione, erano inclini ad accomodarsi con le dottrine e con la cultura del tempo, come anche con le condizioni politiche e civili romano-elleniche, sfruttandole nella diaspora, ossia nelle loro comunità autonome, sparse anticipatamente fuor della Giudea (erano già potenti in Roma sotto Giulio Cesare), a proprio profitto economico e civile di fronte ai diversi ambienti pagani e cristiani; infine i pietisti, nel fervore delle proprie credenze puritane, attendevano un nuovo Messia religioso, il quale poi darebbe in premio ai propri fedeli ancora mille anni di trionfo in un loro regno politico sulla terra. Divisioni religioso-nazionali del pensiero ebraico e delle parti rispettive, pur sempre collegate dalla comune avversione al cristianesimo, che col procedere dei tempi si fusero tutte in quella transigente e diffusiva della diaspora la quale, già insinuatasi prontamente nei primi tre secoli dell'impero da Gerusalemme con numerose comunità in Siria, Asia Minore, Egitto, Cirenaica e più tardi da Roma nell'occidente, organizzata dalla borghesia mercantile e finanziaria, proponevasi di atteggiarsi dovunque, in forma insidiosa od aggressiva, a protesta e vendetta perenne contro la cristianità.
    Il neo-platonismo. Le scuole eclettiche dell'antica filosofia ellenica, inchinevoli da ultimo (per reazione al vuoto paganesimo) a misticismo religioso, sull'esempio di Filone ebreo (secolo I d. Cr.) che avea accostato la Bibbia all'antico panteismo orientale, poco di poi restaurate così sistematicamente (secolo II) in Egitto, finalmente si assimilano nella filosofia neo-platonica. Esse dal secolo III al VI, con Sacca, Porfirio, Plotino, ecc., nelle celebri università di Alessandria, Atene e Costantinopoli; pretendevano di conciliare in un idealismo panteistico evolutivo i pitagorici, il liceo e l'accademia, la mitologia pagana e la fede cristiana, snaturando però quest'ultima ognor più con le dottrine spiritiche e col nirvana buddistico, fino all'aperto distacco dal cristianesimo, quanto più altri (i santi padri) si accaloravano a cristianeggiare Platone e talune teorie della nuova scuola. La quale frattanto, con molteplici indirizzi, riuscì a saturare e sconvolgere non pur il pensiero filosofico, ma tutta la cultura di quei secoli cristiani, riproducendosi con tardiva rinascenza pervertitrice nell'umanismo italico ed europeo del secolo XV e XVI.
    Gli eretici. Autori e pertinaci propugnatori di dottrine religiose deviatrici dalla rivelazione e dalle definizioni dogmatiche della Chiesa, i quali, dalle primitive comunità di Gerusalemme (gli esseni), perseguirono e tormentarono i progressi del genuino vero cristiano; essi, fra gl'indefiniti errori dovunque rispuntati lungo il cammino di questo, misero capo, nel periodo che qui ci riguarda, a due grandi sette, di origine ben anteriore al cristianesimo, le quali venute a contatto storico con questo, mirarono a tramutarlo in un razionalismo pseudo-religioso universale. Gli gnostici (sapienti per eccellenza), partendosi dalle teorie cosmogoniche del più remoto e torbido panteismo dell'oriente, cioè di un principio supremo da cui emana mediatamente (per gradi gerarchici) tutto l'universo spirituale e materiale, più tardi (secolo II d. Cr.), trasformandosi nella «gnosi cristiana» in Alessandria, presumevano di spiegare con ciò il divenire anche delle religioni di più in più elevate, delle quali il cristianesimo sarebbe stato l'ultimo termine assoluto di questa evoluzione universale, dalla quale frattanto veniva distrutta la creazione, umanizzata la divinità e, insieme alla negazione delle immutabili verità sovrannaturali, alterata ogni giusta relazione fra il sensibile ed il sovrasensibile. I manichei, i quali derivando le loro teoriche (sempre intinte di panteismo) dall'altra dottrina orientale antichissima (dei persiani zendici) ripresa da Manete (nel secolo II d. Cr.) di due eterni principi del bene e del male che governano del pari ineluttabilmente il mondo, sostituivano nel cristianesimo stesso alla responsabilità morale umana il fatalismo che già stava al fondo di tutte le religioni pagane; manicheismo e sue derivazioni, contro cui reagì il genio di Agostino nella seconda metà del secolo costantiniano. Al di sopra di queste aberrazioni pseudo-religiose, si aderge, negli stessi anni più vigorosi della vita di Costantino, la prima e massima eresia propriamente cristiana, la quale, dal seno della Chiesa medesima, si levava a colpire la pietra angolare del cristianesimo, il Dio umanato; cioè quella di Ario intorno alla «natura del Verbo»; eresia la quale mise in fiamme per quasi un secolo tutto l'oriente e parte dell'occidente, trasferendosi poi, dopo la sua disfatta, dalle antiche nazioni greco-latine alle nuove genti barbariche invaditrici dell'impero e provocando, con l'esempio, quelle ulteriori eresie e quegli scismi che logorarono senza intermissione i bizantini fino alla conquista turca nel 1453.

    5. Così veramente in questo oriente cristiano per oltre tre secoli, prendendo le mosse dalla vita pubblica del divino Messia, lungo il periodo apostolico, in breve ricollegato a quello dei primi apologeti e poi dei santi padri, tutto quanto concerne la religione, la società e l'incivilimento era proceduto e si effettuò frammezzo a multiformi, incessanti e turbinose lotte d'idee, le quali, erompendo da que' focolari incessantemente accesi e alimentati dalle dispettose delusioni di culti tramontati, dal ferito orgoglio di primati filosofici contestati, dal criticismo audace e insofferente penetrato nel santuario, scendevano in basso coi libri polemici, con le discussioni pubbliche, con le concitate adunanze e deliberazioni solenni, a commovere tutte le classi, dalle più illuminate nei centri di coltura, alle moltitudini nelle città e nelle campagne fino ai solitari nei deserti.
    Chi dubitasse della efficacia quasi soggiogatrice che dovunque, ma in modo particolare nelle regioni asiatiche, dispiegarono dall'antichità più remota dottrine trascendenti e teorie speculative d'ogni natura, che all'origine de' tempi s'immedesimano più che mai coi sistemi religiosi sopra intere popolazioni numerose, informandone non solo la letteratura e il sentire, ma gli ordini politici, sociali e famigliari, il diritto, il costume e il regime economico, dovrebbe far getto delle risultanze di studi recenti meravigliosi sulle grandi religioni storiche dell'oriente. E offuscate pur queste dopo millenni nel loro mistico involucro luminoso, si dovrebbe del pari porre in oblio il fascino che esercitarono colà per lunghi secoli ancora filosofi riformatori quali Lao-Tze e Confucio (in Cina), ma più Zarathustra (in Persia) e Budda (in India), fra il secolo VII e VI a. Cr., sulla vita morale e sulla cultura di quegli Stati e popoli medesimi, i quali non rimasero estranei (come vedemmo a proposito dei neo-platonici e degli gnostici) alle vicende intellettuali e religiose degli stessi paesi divenuti parte del dominio costantiniano e bizantino.
    Se si obbiettasse, poi, che tali influenze spirituali signoreggianti nell'Asia centrale e nell'estremo oriente, penetrarono a fondo soltanto nelle caste ieratiche e nelle classi superiori illuminate, trattandosi di religioni esoteriche e di filosofie trascendenti inaccessibili alle moltitudini inferiori, volte perciò a pratiche di culto e a sentimenti più materiali, è debito richiamare che proprio l'opposto era seguito nell'Asia anteriore bizantina e dovunque apparve il cristianesimo. Il quale, tutt'altro che riservare le più sublimi verità religiose per privilegio a pochi iniziati più eletti, al di sotto dei quali i volghi restano profani ai misteri della divinità e della sua legge, esso, il cristianesimo (preceduto dall'ebraismo) ciò che prima si sussurrava all'orecchio, predicò dai tetti, ossia annunziò egualmente alle somme intelligenze ed alle moltitudini semplici ed ignare e a queste, anzi, prima di quelle.
     Sicché rimase d'allora in poi prerogativa delle popolazioni cristiane, questa: di rendere partecipi tutte le classi, anche popolari, indistintamente al tesoro delle verità sovrannaturali non solo, ma anche, in qualche modo e misura, agl'indefiniti problemi dello spirito umano. Imperocché nel cristianesimo, in cui la fede, la morale e le opere pei credenti si trovano intimamente compenetrate fra loro nella medesima legge di suprema dipendenza da Dio,  il popolo stesso intuisce, col suo buon senso e per esperienza, che la religione compendia in radice la soluzione di tutte le questioni intellettuali, etiche e di condotta individuale e sociale che si incalzano nella pratica della vita. Ed esso allora vi si interessa attivamente col sentimento; ciò che in condizioni singolari di ambiente più adatto, di tempra etnica più squisita, di più longeva educazione storica, di fede viva e contrastata, sotto lo stimolo di urgenti realtà immediate, può divenire abitudine, virtù, entusiasmo o passione e vizio generale.
    Tale era il caso (non lo si dimentichi) di questi paesi mediterranei, componenti la parte orientale dell'impero, in cui si era diffuso il sangue, il genio, la cultura della stirpe ellenica assimilatrice per eccellenza; paesi interposti fra due civiltà dell'Asia orientale e dell'Europa occidentale, nei quali pertanto, la religione del Cristo ivi primamente annunziata era cresciuta fra l'intreccio e l'urto dei fattori più svariati ed opposti della storia del genere umano, saturando dei propri elementi gli alti come gl'infimi strati di quelle popolazioni.
     Così (a meglio raffigurare il fenomeno psicologico), i due capi estremi della catena di questi conflitti d'idee per cui quelle storicamente trapassarono, conflitti talora attraenti per esuberanza giovanile, tal 'altra ripugnanti per senile marasma, potrebbero essere segnati da un lato, dal popolo ateniese ciarliero e mordace che nell'agorà e nell'anfiteatro si agita e discute pro e contro l'emancipazione femministica, per la proprietà privata o per il comunismo nelle commedie di Aristofane; e da un altro dai bizantini che nelle piazze, quando incombe l'ora fatale sulla città di Costantino, contendono fra loro intorno alla interpretazione del «dogma della procedenza» sotto il fragore delle armi di Maometto II.
    Fra queste due estreme date storiche si era dispiegata la serie di quegli avvenimenti, ora riposti e insinuanti al fondo della vita privata e sociale, ora fragorosi e cruenti per violenze pubbliche e di Stato, che da Augusto all'età costantiniana avevano posto di fronte, l'un l'altro, paganesimo e cristianesimo in forma di lotta fra due religioni; la quale però, nelle regioni levantine dell'impero, per prevalenza di multiformi coefficienti ideologici e psicologici, avrebbe quivi assunta più spiccata fisonomia di lotta fra due civiltà, capace di travolgere in essa tutte le classi, anco le popolari.

     6. A cavaliere del secolo III e IV, nell'approssimarsi della fine delle persecuzioni, la società cristiana usciva da questi multiformi e stridenti attriti di credenze e di culture, aumentata, rinsaldata, purificata. I cristiani, assommando i pazienti e sudati acquisti di tre secoli, da Roma erano penetrati all'occidente nella Spagna, Gallia, Britannia, nell'Africa settentrionale ed avevano quasi invaso le province orientali, dalla Palestina abbracciando in un vasto emiciclo la Grecia, la Tracia, l'Asia Minore, la Siria e l'Egitto, estendendosi ulteriormente nell'Arabia e Mesopotamia. Nella parte orientale essi faceansi salire quasi al terzo della popolazione, ma ciò che è più, ivi formarono anticipatamente grosse e vivaci comunità in tutte le grandi città, in Antiochia, Efeso, Alessandria, organizzandosi mercé la gerarchia ecclesiastica nelle diocesi illustrate da uomini insigni per santità e dottrina, Alessandro, Origene, Serapione, Dionigi, prima ancora di que' santi e giganti che comparvero nel grande concilio di Nicea, istruendosi ed educandosi nelle scuole catechetiche e poi teologiche e filosofiche aperte in Antiochia, Edessa, Alessandria, più tardi in Costantinopoli, per fronteggiare le insidie della scienza pagana anticristiana e schermendosi dalle mostruose calunnie popolari o dalle malignità del dotto paganesimo o dai sofismi delle sette pseudoreligiose ed ereticali, mercé i primi apologeti Aristide, Apollinare, Atenagora, Minucio Felice, precursori di quei grandi atleti del dogma, della filosofia, della morale cristiana, quali furono Clemente Alessandrino, san Cipriano, Tertulliano, sant'Agostino. Ma soprattutto que' cristiani di oriente (emuli di quelli di occidente) si affermavano alla luce del sole, al cospetto di una società scettica e degradata, quali rappresentanti di un ordine sociale affatto nuovo, colla vita ascetica schietta e virile, colla purezza del costume interiore e domestico, col rispetto della donna, del fanciullo, dei deboli, con ogni opera di carità privata e collettiva, colla fortezza del carattere dei martiri e degli eroi dinanzi a quello Stato stesso che li perseguitava. Il cristianesimo aveva vinto bene innanzi alla pace costantiniana, certamente in virtù del suo valore sovrannaturale, religioso, ma ancora per quello morale e civile di tanto superiore alla società circostante, ciò che faceva pronunciare, ad uno dei più antichi apologeti, la sentenza universalmente riconosciuta: «ciò che è l'anima nel corpo, sono i cristiani nel mondo» (Anon. Epist. a Diogneto).
    Il paganesimo, che al cessare delle persecuzioni contro i cristiani doveva intonare il peana del vincitore, si trovò invece gittato all'estremo della prostrazione, sicché, per una crisi psicologica profonda, si scorge mutare direttiva di fronte alla religione rivale, sostituendo ai mezzi diretti e violenti della repressione, quelli indiretti della penetrazione religiosa e sociale insieme. Era una ripresa dei sentimenti angosciosi di scoraggiamento già risalenti ai primi decenni dal deicidio sul Calvario, quando la distruzione per opera di Tito del tempio di Gerusalemme, santuario del giudaismo, coincidente, a pochi mesi di distanza, coll'incendio nel Campidoglio dei santuari del gentilesimo, parve fatidico avvertimento che la scomparsa di queste due rocche delle religioni antiche, comprese nell'impero, avrebbe lasciato aperto il campo soltanto all'unica religione novella più universale e duratura dell'impero stesso. E furono tali sensi di desolazione, i quali, ben più che dalla concessione di Costantino, accresciuti dall'insuccesso della riscossa di Giuliano l'Apostata, trassero i corifei di un programma di rivendicazione pagana, ad intensificare e tesoreggiare le remote relazioni col moto di idee irradiantisi dai tre fochi massimi, così perduranti e crescenti nelle regioni orientali fino ai tempi costantiniani, per tentare una nobilitazione del paganesimo nel suo culto tradizionale e nella sua missione civile e politica e volgerlo così a menomare, se non a recidere, la vittoria del cristianesimo.
    Già Filone ebreo, che, come fu accennato, dimostrava la identificazione della religione colla stirpe d'Israele con argomenti panteistici, aveva servito a ripresentare, di fronte alla universalità del cristianesimo, il concetto generale di religioni etnico-nazionali. I sistemi gnostici e manichei, che nella necessaria evoluzione universale (monistica o dualistica) additavano travolte del pari dottrine religiose, scuole filosofiche, istituzioni private, sociali, politiche, si fecero convergere a riabilitare quel panteismo di Stato che immedesima società, religione e politica nei governanti, antica caratteristica di tutto il mondo pagano fino a Cristo. E il neo-platonismo degenerato, sotto i medesimi riflessi panteistici dell'oriente, ridestava peggiorate le tradizioni dell'antica filosofia greca, specie di Pitagora e del divino Platone, fondatore quello di comunità di vita speculativa, illustratore questo (nella repubblica e nelle leggi) di un comunismo di beni, di uffici, di sessi, di famiglia, con lo strascico di abominevoli costumi; tradizioni, le quali, nell'atto che strappavano le radici dell'etica cristiana, rimettevano in onore i viziati ordini sociali del paganesimo ellenico e romano. Di qui le novelle forme comunistiche predicate da Apollonio di Tiana, neo-pitagorico nell'Asia Minore e in Grecia al tempo di Nerone, e più tardi dai neo-platonici di Alessandria, da Plotino, passato a Roma a tenervi cattedra, protetto da Gallieno e da Porfirio Giamblico, favorito di Giuliano l'Apostata, ambedue ispiratori delle ultime persecuzioni imperiali contro i cristiani. Tutto questo battagliare di sottili disquisizioni, di propagande disoneste e di radicali innovazioni, rinfocolavano gli eretici dai primi giorni del cristianesimo all'età costantiniana. Riscontrasi criticamente da un lato, il nesso fra le dottrine che di volta in volta gli eretici contrapposero alla verità cristiana e lo spirito filosofico del tempo, e da un altro il concorso che essi spesso apportarono a corrompere la morale e a sconvolgere le basi dell'ordine sociale-civile. Gli ebioniti, cristiani-giudaizzanti della primitiva chiesa povera di Gerusalemme, successivamente eterodossi (specie in Alessandria), fra l'esaltazione del pauperismo egualitario e lo spregio arrogante dei possidenti e delle classi superiori, caddero in un collettivismo più o meno larvato. I millenari cristiani, discendenti da quelli ebraici e sognanti, nell'attesa felicità del regno terrestre di Cristo, la piena fratellanza nell'uso dei beni e nella innocenza della vita, dippoi a contatto degli ebioniti di Egitto più che mai degenerati, inclinavano ad agognare con questi il pareggiamento di dovizie materiali e di voluttà fino al libero amore. Ma nei secoli posteriori (II e III fino al IV), per lo più sotto la invadente influenza degli gnostici alleati ai neo-platonici, le sette moltiplicatesi (montanisti, adamiti, apostolici, manichei) nelle loro tendenze economiche di comunismo, oscillano, eticamente, dalla condanna del matrimonio al malthusianismo, alle pratiche sessuali criminose ed alla poligamia. Anzi fra essi i carpocraziani, per mezzo dei loro fondatori (Carpocrate alessandrino e il figlio Epifane, gnostici monistici del secolo II), presentano il saggio di un sistema scientifico sintetizzato nella formula «comunanza con uguaglianza» nel quale, con argomenti razionali e positivi, si dimostra la iniqua genesi storica della proprietà e della famiglia e si propugna in modo esplicito e concreto, come voluto dalla «legge stessa di Dio», la duplice e piena comunanza economica e sessuale; sistema che per molti aspetti si accosta alle dottrine odierne collettivistiche di C. Marx e a quelle sulla donna di Bebel e che ebbe immediato seguito di abominazioni nefande ripercosse, talora, presso posteriori eresie, protraendo così le tristi reminiscenze ed abitudini della corruzione pagana anche in seno a società cristiane.

    7. Tutto ciò decise non solo della grandezza, ma ancora dell'atteggiamento, fra le parti contendenti di quella suprema tenzone, la quale, nel secolo di Costantino, avrebbe risoluto le sorti definitive del paganesimo di fronte al cristianesimo.
    Trattasi dunque, per il primo rispetto della grandezza, del fatto, al chiudersi del secolo III, di un ingente conflitto d'idee per cui tutto era rimesso in questione: religione, Stato, cultura, morale, famiglia, gerarchia sociale, moltitudini popolari, istituzioni civili, in forma di crisi complessa di civiltà, nella quale tutti i coefficienti di essa, per qualunque titolo estranei, avversi o fedifraghi al cristianesimo ed alle sue ascensioni, si trovano piegati e sospinti verso il paganesimo; che dopo le persecuzioni precipitava alla decadenza, per tentare di impedirne, con un supremo sforzo comune, l'estrema mina. Vera lotta critica di civiltà cristiana e pagana, la quale, prima e massimamente coinvolgendo tutta la parte orientale dell'impero, aveva affaticato le energie di tutte le classi più illuminate, da ogni parte scosse e ferite nelle proprie idealità, tradizioni e aspettative, e trascinato in tumultuose concitazioni le moltitudini popolane nel contrasto di credenze, costumi, passioni e d'illusorie cupidigie e che, intensificandosi vieppiù nelle grosse città, ma tenendo il suo centro massimo in Alessandria, cuore delle più svariate vicende del pensiero che la storia ricordi, correva nei primi decenni del secolo IV verso lo stadio più acuto e risolutivo.
     Ma nel secondo rispetto, dell'atteggiamento delle forze combattenti, il paganesimo, che nel diuturno spettacolo di una fede generatrice di civiltà, la quale ascendeva al suo culmine coll'esuberanza del vigore giovanile, sperimentava i sintomi della decrepitezza di un culto che assisteva impotente al dissolvimento di una civiltà moritura, si afferrò in queste regioni orientali (ben più che nell'occidente) all'unica tavola di salvezza: quella di un programma esso pure ideale di «sincretismo», cioè d'ibrida conciliazione di dottrine ed istituzioni fra loro repugnanti. E mentre Simmaco, prefetto di Roma, con un resto di dignità latina, nel celebre discorso per la conservazione nel senato della statua della Vittoria, ultimo simbolo della potenza e sapienza romana, sostiene e propone all'imperatore il pareggiamento nella rispettiva libertà dei culti, pagano e cristiano, nelle sedi orientali invece i retori ellenico-bizantini, per bocca di Libanio, annunziano che è degno della divinità che ad essa gli uomini pervengano per vie di culti diversi, che il monoteismo cristiano è compatibile col politeismo pagano, che sull'esempio degli stoici il paganesimo è capace di sorreggere costumi virilmente casti e che l'autorità dell'imperatore, anche cristiano, può, senza contraddizione, serbare l'antica dignità di pontifex maximus nei sacrifizi dei templi pagani. Sincretismo di dottrina e pratiche contraddittorie che, in quest'oriente imperiale ove i progressi del cristianesimo promettevano sicura vittoria nel secolo novello, fu pericolo insidioso per la società cristiana più che tutte le battaglie di sangue e di pensiero finora sostenute; sicché alla fine del quattrocento, dopo la libertà costantiniana alla Chiesa e i trionfi di questa, le prime e più elette schiere cristiane si trovarono bensì aumentate in numero, ma già adulterate da equivoche conversioni, da innesti di fede e di superstizioni, da troppi uomini cristiani per credenza ma pagani di costumi, oscurando le previsioni del più lontano avvenire della Chiesa.
    Tale era l'ambiente reale e psicologico in mezzo al quale veniva a promulgarsi l'editto di libertà da Costantino concessa alla Chiesa. La quale pertanto, aveva così integrato per l'indomani quel programma di religione e di civiltà insieme che rimase glorioso nella storia. Essa, nella pienezza della sua azione indipendente, non avrebbe ormai soltanto raffermato il dogma cristiano colle sue autorevoli definizioni e saturato della sua divina morale tutte le istituzioni private e pubbliche della società, ma assimilate a sé stessa tutte le sane e legittime tradizioni della civiltà latino-ellenica, per consacrarle nell'unità del Cristo immortale.

IV

    L'editto del 313 per parte dell'imperatore Costantino dichiaratosi cristiano, veniva a coincidere col momento più acuto di quelle condizioni storico­civili di ambiente testè delineate. Né ciò soltanto nei riguardi politici, sociali, economici, ma più in quelli psicologici. La società pagana, già esaurita dalle guerre intestine fra gli emuli poliarchi e le cruente persecuzioni anticristiane, in preda ad un marasma di sette pseudo-religiose, di scuole filosofiche, di passioni popolari che aveano toccato il massimo d'irritazione e di scoraggiamento, invocava un atto autoritario che desse almeno una tregua alle scissure letali ed alle fosche previsioni dell'impero vacillante. E la società cristiana, che fra quelle battaglie di sangue e di pensiero aveva guadagnato coscienza del proprio diritto e di vittoria certa, era pronta ad accettare una «parola di pace» che le permettesse «di raccogliere, in un istante di gaudio, quanto avea seminato in tre secoli di lacrime». Così anco l'avvenimento della «libertà della Chiesa» compievasi nella pienezza del tempo suo! Ed ora se ne può compendiare gli effetti.
   Ciò peraltro non senza un avvertimento. I risultati dell'editto per la pace e la libertà cristiana non potevano rendersi palesi e sensibili immediatamente all'universale. Dopo il 313, data del documento di Milano, Costantino si trovò assorbito dalle imprese perigliose contro i Cesari Massimino e Licinio, pertinaci nel resistere a lui e perseguitare i cristiani a protesta del suo programma unificatore e pacificatore dell'impero: ciò che non poté compiere che con la vittoria di Adrianopoli nel 323; come più tardi i successori del novello Angusto dovettero attendere il dileguarsi della effimera ma insidiosa reazione pagana di Giuliano l'Apostata (m. 363) per riprendere l'opera cristianizzatrice dello Stato che raggiunse il suo culmine con Teodosio il Grande (m. 395) e con la raccolta delle leggi degl'imperatori cristiani (codice teodosiano, 438) sotto Teodosio II.
    Ma più di tali fatti politici e giuridici, occorrevano altre circostanze sociali propizie a sperimentare l'importanza e l'efficacia della concessa libertà alla Chiesa al cospetto universale, ed a coinvolgere nei risultati di essa la coscienza d'intere popolazioni, concordi nel difenderli come altrettante conquiste della novella civiltà.
    Non mancarono occasioni storiche solenni a far risplendere nelle menti e scolpire negli animi la novità e la grandezza dell'atto costantiniano di libertà, e queste si levarono dal seno stesso della Chiesa, combattente per la integrità della fede contro le eresie e innanzi a tutte per tempo e gravità quella di Ario; la quale fu il primo e massimo tentativo (prodotto dalle idee gnostiche, neo-platoniche e giudaiche) di menomare il carattere sovrannaturale del cristianesimo nella persona del Verbo, eresia che commosse e sconvolse tutto il secolo di Costantino. Il quale in questo momento decisivo, fedele a ciò che aveva proclamato con le leggi, «aver diritto la Chiesa, nella sua missione dogmatica, di regolarsi per immediata divina autorità da sé medesima all'infuori di ogni ingerenza di Stato», favorì con zelo di neofita, con la maestà del rinnovato imperio, e con ogni aiuto pubblico, la convocazione del primo concilio ecumenico di Nicea nel 325.
   Non mai (così fu scritto con verità), anche nei riguardi della storia civile, spettacolo più sorprendente per il passato né più ricco di espressione per l'avvenire, di questo concilio, nel quale ben 318 vescovi di ogni nazione e parte del mondo cristiano, già additati agli altissimi uffici ecclesiastici (come era il modo allora frequente di elezione) dalla moltitudine stessa dei fedeli con riguardo soltanto alla virtù ed al sapere, uomini di santità, taluni dei quali portavano ancor sulle membra impresse le stigmate delle patite persecuzioni, si trovarono raccolti nella unità col pontefice di Roma per definire con autorità infallibile, fra la trepida aspettativa di tutti i fedeli e degli stessi avversari, «che cosa si debba credere e come si debba operare per mantenere integre le verità e le leggi morali divinamente rivelate».
    La Chiesa docente, in quella assemblea da cui uscì il «Credo» niceno, pronunciò le sue definizioni; ma ben può dirsi anche dal sociologo, che per la solennità di quelle discussioni e sentenze, in nessun altro momento della storia come in questo, la fede e la morale si affermarono siccome il tesoro massimo e l'interesse supremo non solo delle anime, ma dell'umanità.
    Né tardò che tale significato sublime e tal valore inestimabile del sovrannaturale cristiano trovasse l'assenso pieno, sentito, larghissimo delle popolazioni, aggiungendovi per così dire un suggello sociale.
    È noto che la vittoria di quel concilio fu breve e che attraverso mille circuizioni retoriche ed insidie pratiche (che già contrassegnavano lo spirito bizantino) l'arianesimo riprese un proselitismo, ora capzioso che salendo fino alla corte impigliò lo stesso Costantino, ora violento e turbinoso da minacciare la stessa unità del mondo cristiano e dell'impero.
    Ma dopochè il grande Atanasio, che aveva assistito alle adunanze di Nicea in qualità di diacono del patriarca di Alessandria e che poi ne divenne il successore recando sulla cattedra episcopale l'anima inflessibile di un Gregorio VII, riprese in sua mano la riscossa per la integrità del Credo niceno, per l'ossequio della gerarchia ecclesiastica fino al pontificato e per la indipendenza della Chiesa cattolica di fronte all'impero stesso cristiano, fu egli che, in una serie di battaglie titaniche, per quasi mezzo secolo (328­373) da lui personalmente sostenute e guidate con multiforme e infaticata energia di pensiero, di parola, di scritti, di opere prudenti, ardimentose, pertinaci, entro il suo episcopio, alle soglie della corte, nei recessi degli eremiti, fra i convegni sacerdotali, in mezzo alle popolazioni esagitate, attraverso i suoi viaggi in Egitto, in Levante, a Costantinopoli, in tutta Europa, e dal fondo dei suoi cinque esigli e prima di quello di Treviri in Germania dove, vittima di calunnie, l'aveva primamente confinato Costantino medesimo, e infine da Roma stessa al centro del pontificato, fu egli, ripetiamo, che acclamato popolarmente «padre dell'ortodossia», apparve come il precursore, il testimonio, il rappresentante e vindice della coscienza cattolica del tempo suo!
    In tal modo Atanasio segna il momento decisivo nella storia, nel quale trapassò e si impresse nelle popolazioni il convincimento del valore sociale del cattolicismo.
    Episodio veramente decisivo, questa lotta epica contro l'arianesimo (e le altre eresie concomitanti e derivate dei nestoriani, monofisiti, ecc.), eco possente e conseguenza necessaria del concilio niceno, protrattasi con le sue vibrazioni dal terzo decennio del secolo IV fin verso la metà del secolo V; nella quale la figura gigantesca di Atanasio (m. 373) si trovò accompagnata e l'opera sua proseguita da colossi pari a lui, Osio di Cordova (m. 358), il rappresentante di Costantino a Nicea e l'assertore del primato pontificio ad Efeso, Gregorio di Nazianzo (m. 389), Gregorio Nisseno (m. 395), Giovanni Crisostomo (m. 404), Cirillo di Alessandria (m. 444) nell'oriente, Ilario di Poitiers nella Gallia (m. 368), Ambrogio dalla Germania in Lombardia e in tutta Italia (m. 397), Girolamo nell'Illirio, Lazio e Palestina (m. 420), Agostino nell'Africa (m. 430); lotta storica che coinvolse le sorti politiche dei costantiniani e, attraverso la persecuzione di Giuliano l'Apostata, signoreggiò gl'imperatori del ciclo teodosiano da Teodosio il Grande (m. 395) e i suoi figli Onorio ed Arcadio, fino a Valentiniano III (m. 455) in occidente, ed a Teodosio II (m. 450) in oriente; lotta infine incruenta ma feconda d'immensi frutti religiosi, per cui i popoli di tre continenti «che in quelle battaglie aveano appreso il linguaggio e lo spirito della teologia cattolica sì da intuire gli errori insidiosi della eresia», riuscirono ad assimilarsi nella fermezza e nell'entusiasmo per la fede, mentre in Roma i pontefici,  moderatori sereni e forti di quelle tenzoni, da Silvestro (m. 335) a Liberio (m. 368), a Damaso (m. 384), fino a Leone I Magno (m. 461), venivano ad estollersi nella comune venerazione, siccome custodi dell'eterna verità e centro di una misteriosa potenza unificatrice.
     Ora soltanto all'uscire da queste prove terribili e gloriose, è dato di riconoscere ed estimare gli effetti sociali dell'editto costantiniano di libertà cristiana. A cavaliere, infatti, dei secoli IV e V, in seno alle popolazioni, massimamente delle regioni orientali dell'impero, si trovano deposti i sommi principi, sbocciate le istituzioni essenziali, tracciate le linee maestre dell' ordine e del progresso cristiano, che formano ancora il fondamento e la matrice della civiltà moderna; e ciò parecchi secoli innanzi a Carlo Magno, dal quale si fa per lo più derivare l'inizio della civiltà medievale in occidente. Di tali risultanze civili ora si può procedere ad una rapida enumerazione non senza avvertire che esse criticamente non debbonsi chiamare effetto dell'editto Costantiniano (del 313 a Milano, ripubblicato a Nicomedia 323), quasi questo ne fosse l'immediato generatore, bensì nel senso che la libertà, legalmente concessa allora alla Chiesa cattolica, permise di disvelare apertamente quanto questa aveva già operato per virtù propria a pro del rinnovamento civile nei tre secoli anteriori di sua esistenza, e quanto essa prometteva di compiere allo stesso intento nell'avvenire, sotto l'azione di leggi cristiane.

    GLI EFFETTI RELIGIOSI. - Non senza grande significato si rileva come i primi e più solenni effetti dell' editto di Costantino si ripercossero sulla estimazione della religione, in specie dopo il concilio di Nicea e la vittoria sull'arianesimo che si annunziava scomparso dai confini dell'impero verso la fine del 400, salvo a trasmigrare per poco fra le genti barbariche.
    Non mai forse come ora, la fede si aderse così sublime nelle menti e nei cuori delle umane generazioni e risplendette anche esteriormente con tutto il fulgore di un fatto sovrannaturale. In queste regioni orientali specialmente, in cui incombevano ancora le millenarie reminiscenze di trascendenti teogonie indefinitamente evolutive di religioni esoteriche sottratte ai volghi profani, di culti spesso feroci e abominevoli, e dove sopravviveva tuttora, nell'amalgama di tutti i miti, la religione politica del paganesimo romano nella sua vacuità dottrinale e nelle sue pratiche superstiziose; nozioni e forme religiose, in cui si sente dovunque l'uomo con le sue aberrazioni ideologiche e con le sue passioni brutali; la rivelazione cristiana positiva quale veniva, per così dire scolpita e cesellata nella vigorosa sua formula e significazione nel Credo niceno, pazientemente definito e raffermato fra le meditazioni, le discussioni, le lacrime, le lotte di tanti vescovi e ministri, santi e dotti della Chiesa, sanzionato nella sua infallibilità dal supremo pontefice, e proposto all'adesione universale dei fedeli, agl'istruiti ed ai semplici, al sacerdozio ed ai fedeli, ai presenti ed ai futuri, siccome un sistema di verità altissime, immutabili, di cui niuno può alterare o revocare in dubbio un apice soltanto, questa fede, ripetiamo, ora nelle definizioni enunciate e ribadite nei concili così frequenti in oriente, si profferiva pubblicamente col suggello autentico ed abbagliante di un fatto di origine ed autorità divina, destinato ad illuminare tutti gli uomini in ogni tempo e luogo.
    Fatto ammirando codesto della fede in tale sua rivelazione, la cui meraviglia cresce per le simultanee grandiose affermazioni della morale. Nuovo contrasto qui pure. Mentre nell'antico paganesimo i dettami della morale si risolvono o in precetti minatori di divinità crudeli e vendicative, o in vaghe norme di benevolenza reciproca utilitaria, ovvero, nel politeismo classico, in poche consuetudini d'incosciente onestà tradizionale, compromessa dagli esempi stessi di deità mitiche scandalose, in questo oriente l'etica cristiana, fin dall'origine congiunta alla fede, diviene in breve l'oggetto di un'attività (intellettiva e pratica) fervida, intensa, continuata, nelle predicazioni degli apostoli e missionari, negli scritti polemici dei santi padri, nelle omelie dei vescovi, nelle sentenze dei tribunali ecclesiastici, nelle definizioni e discipline di concili e sinodi, dando frattanto all'etica evangelica illustrazioni sublimi, efficacia profonda, applicazioni multiformi! E allora s'alzano voci concordi e poderose ad intimare al mondo vile e corrotto che la morale di Cristo è, come la fede, di origine divina nei suoi principi immutabili, generatrice alla sua volta di un diritto di natura che anticipa e sopravanza quello positivo degli Stati: età e morale positiva e operativa per eccellenza che regge tutta l'attività interiore ed esteriore dell'uomo in ogni vicenda della sua esistenza e che domina tutto ciò che è umano indistintamente, individui, classi, clero, laicato, istituzioni, società e Stato, non piegando nemmeno davanti agli arbitri dei governanti o alla spada dell'imperatore.
    Ma vi ha ancora una manifestazione concomitante più sensibile e perspicua: quella della Chiesa. Se nell'occidente la divina costituzione di essa procedeva cauta nella sua estrinsecazione all’ombra delle catacombe e fra gl'infesti istituti pagani, nelle regioni orientali, con passo più alacre e palese nei secoli anteriori a Costantino, si svolge con le forme mature di una società non solo interiore di anime, ma esteriore di un organismo gerarchico, vasto e complesso, ed essa vi dispiega, con autorità riverita, la triplice missione divinamente affidatale: d'interpretare il dogma, di custodire e applicare la morale, di guidare gli umani in tutte le contingenze della vita ai pascoli eterni. Insuperabile costituzione della Chiesa cattolica la quale (a rovescio dell'antico paganesimo col suo assorbimento di ordini religiosi e politici), sorta per virtù propria al di fuori dell'organismo dello Stato romano e grandeggiata dapprima nel levante ellenico-latino ad Antiochia, Alessandria, Bisanzio, ove per tre secoli si inframmise con sapienza benefattrice ai problemi, dolori, conflitti di quelle popolazioni, già dispiega le sue tende ben oltre i confini di tutti gli Stati, per dirigere dovunque, con mano amorosa e robusta, l'opera di redenzione religiosa e di civile rinnovamento!
   Il mondo pagano non avea sospettato nulla di simile e se ne atterri come di annuncio ferale, mentre la cristianità, per bocca di Gregorio Nisseno, di papa Liberio e del poeta Prudenzio nella età costantiniana, intonò l'inno della vittoria.
   Questi fatti non offrono soltanto un argomento apologetico in favore della verità assoluta della religione novella, bensì ancora una espressione sociologica!
    Certo è che da quei fatti, dimostrazione luminosa di quella «verità che tanto ci sublima» si leva e risplende un concetto comprensivo che signoreggia il secolo di Costantino e di Teodosio per non tramontare mai più: quello del valore sociale del cristianesimo, impersonato e vivente nella Chiesa. E una prima forma della coscienza pubblica cristiana che in quella fede, la quale coinvolge ed innalza il pensiero, il sentire, ogni attività dell'uomo fino al sovrannaturale, addita ancora la fonte del massimo bene della società, sicché, accolta e rispettata, genera l'ordine e la perfezione civile, respinta e violata, apporta il disordine e la ruina della società e, di riflesso, dello Stato.
    Anzi questo sommo concetto sociale che aleggia primamente sulle popolazioni cristiane dell'oriente imperiale, si scorge simultaneamente spezzato come il pane di vita in altre grandi idee analitiche le quali vieppiù scolpiscono l'importanza sociale del cristianesimo: Dio è causa prima e termine ultimo dell'uomo, e quindi anche l'esistenza e la vita umano­sociale, nel suo ordine naturale terreno, è quaggiù collegata all'ordine sovrannaturale ed eterno; tutti i rapporti umani (libertà personale, matrimonio, famiglia, lavoro, proprietà) da cui risulta la società, sottostanno alla legge etico-religiosa avvalorata dal diritto; per essa la società, ente morale, è la base dello Stato, e questo non fa che completarla coi suoi mezzi esteriori giuridico-civili; e tale ordine umano sociale, che trova positiva e compiuta attuazione nel cristianesimo rappresentato dalla Chiesa cattolica, è destinato a promuovere una civiltà indefinitivamente perfettibile, la quale si contrassegna dalla progressiva elevazione spirituale, dalla potenza unificatrice, dalla espansione universale.
    Tali grandi idee sociali, che è convenuto dagli studiosi comporre i capisaldi della sociologia del medioevo ripresa dalle scuole moderne, spuntano e balenano da ogni parte della società orientale nei tre primi secoli cristiani, propugnate e difese vigorosamente dalle sentenze di autorità solenni, dalle menti sovrane di filosofi e polemisti, dal consenso pratico delle moltitudini, fra le esperienze quotidiane di quella vita di combattimento e trasformazione. Sicché deve affermarsi che le somme dottrine sociali cristiane, che stanno ancor alla radice della cultura occidentale, si costituirono primamente nell'età costantiniana. Esse anzi vi formavano la coscienza psicologica della popolazione, provocandone e dirigendone le energie; mirabile saggio di un ordine di idee che reggeva l'ordine dei fatti in quell'alba di civiltà rinnovatrice. Gli scritti dei padri orientali e l'eco dei popoli in quel periodo ne sono prova luminosa. Tutti i critici di questa letteratura riconoscono che la struttura delle teorie sociali si può allora ricondurre alla formula: la terra guardata dal cielo; ecco la spiritualità trionfatrice dell'ordine novello! Il celebre motto popolare che risonava nel medio evo nei giorni delle grandi imprese comuni: «un solo Dio, un solo papa, un solo imperatore»), sgorgò originariamente dal seno delle nazioni ellenico-orientali; ecco l'unità coordinatrice della società rinascente. Né erano soltanto teologi e filosofi che nel ricostituito impero vastissimo degli antichi Augusti additassero il simbolo delle conquiste di Cristo sul mondo, ma i barbari, orgogliosi di difendere con le armi la eredità crollante di Costantino, e le plebi, contente di morire per i suoi imbelli successori, testimoniano il senso fatidico dell'universalità che si perpetua nell'incivilimento cristiano. Quel fascio di luce religiosa si era tramutato in calore di vita sociale.
    Quello stesso atto legale di «libertà al cristianesimo» che onora Costantino e scolpì la suprema differenza fra gli ordinamenti antichi e nuovi, come avvertimmo a proposito del panteismo di Stato nel paganesimo, ritrae da quella luce superna le più alte giustificazioni ideali.
    A quest'età costantiniana spetterà sempre la gloria di aver posto i criteri fondamentali delle «relazioni normali fra Chiesa e Stato cristiano». Esse poggiano notoriamente sopra tre cardini: la distinzione (non separazione) fra Chiesa e Stato, siccome due società di origine, natura, fini diversi; l'indipendenza di ambedue questi enti nella costituzione e nell'esercizio delle proprie funzioni in corrispondenza al loro fine rispettivo, per l'uno religioso, la salvezza delle anime nel mondo celeste, per l'altro civile, la sicurezza (giuridica) ed il benessere (il bonum commune) dei cittadini nel mondo esterno terreno; il coordinamento delle rispettive energie e funzioni nella loro cospirazione gerarchica, per cui il bene ultimo e religioso conferisce al bene prossimo ed inferiore civile e viceversa; in pro del cammino storico della umanità ai suoi destini naturali e soprannaturali che noi chiamiamo incivilimento.
    Orbene: queste originali ed altissime nozioni direttive, che avrebbero innovato gl'istituti più intimi della vita individuale e collettiva, quali la vera libertà di coscienza e di culto, l'eguaglianza degli uomini nella società etico-universale, ben più vasta degli Stati, l'estensione e i limiti dei poteri dello Stato medesimo, non sgorgano tutte dal concetto dell'ordine soprannaturale divino, dell'eccellenza di questo sopra l'ordine naturale umano, della sua efficacia sul perfezionamento umano e della civiltà; cioè non discendono da principi religiosi? In particolare la visione chiara e convinta del valor sociale del cristianesimo per la stabilità dell'ordine nello Stato e per il progresso dell'incivilimento nella società, scorgesi aver posto, fin dai tempi costantiniani, anche il criterio dell'intervento dello Stato nelle manifestazioni esterne (corrette o meno) della vita religiosa delle popolazioni; criterio che è dato dal bonum commune dei cittadini e che è in gran parte relativo. Quando il paganesimo manteneva, nel sentire tradizionale delle popolazioni, vaste radici, Costantino concede al crescente cristianesimo eguale libertà di culto a questo come a quello; e, convinto cristiano, serba il titolo (non l'ufficio) di pontifex maximus dinanzi ai pagani per la unità e la pace dei cittadini. Quando più tardi la coscienza pubblica, fra il rapido progresso del cristianesimo e dei suoi benefici, provoca in oriente il frequente atterramento, per impeto di popolo, dei disertati templi pagani, Teodosio I ne ordina la generale chiusura «siccome focolari di superstizione» indegna di popoli di più alta civiltà, curandone tuttavia in occidente la conservazione per rispetto dell'arte. Similmente gli eretici, lungamente tollerati nelle grandi scuole, nelle assemblee pubbliche, nella stessa corte imperiale, si respingono e imperano con mezzi coercitivi di Stato, quando risultano corruttori del costume, propagatori di teorie sovversive, minaccia all'unità dell'impero. Il bonum commune appare così il titolo prevalente e il limite dell'azione statale nelle controversie religiose.
     Quegli alti criteri e queste ardue applicazioni nel campo politico-religioso faranno luogo sovente a procedimenti empirici ed a violazioni d'ogni forma, cominciando da Costantino fino ai despoti successori di Bisanzio. Ma è giustizia storica ricordare che l'esempio solenne di concordia nel fissare i principi nelle relazioni normali fra i due grandi enti, e d'invitta franchezza nel sostenerli, partì primamente da teologi, controversisti, soprattutto da vescovi ammiranti, auspici i pontefici, di questo oriente cristiano fin dal tempo costantiniano. Merito eccelso e incontestabile in specie nell'affermare il diritto della Chiesa alla propria libertà nell'esercizio della propria missione religiosa, e il dovere dello Stato di non immischiarvisi e di rimuovere ogni ostacolo al pieno adempimento di essa. Già durante la vita di Costantino, che si era intitolato episcopus externus della Chiesa e: dinanzi al suo vacillare in faccia all’arianesimo ed ai donatisti, non furono soltanto Atanasio di Alessandria e Giovanni Crisostomo di Costantinopoli i grandi difensori della libertà episcopale davanti alla schiavitù dorata dello Stato, ed il martello del servilismo d'altri vescovi; ma Osio di Cordova, che aveva rappresentato Costantino a Nicea, più tardi, all'imperatore Costanzo invadente ed oppressore, non si peritava d'indirizzare questa intimazione: «Ricordati di essere mortale e temi il giudizio finale che se Dio ti dette l'imperio, a noi affidò le cose ecclesiastiche; e pertanto guardati di mandare a noi i tuoi comandi in siffatte materie, ma bensì li impara e li ricevi da noi!...». E papa Liberio, quegli che aveva approvato le definizioni di Nicea, essendo egli stesso da Costanzo esiliato da Roma sostituendogli un antipapa perché non volle riconoscere la condanna imperiale contro Atanasio, con linguaggio degno dei titanici lottatori papali del medioevo gli risponde: «Non sarà mai che noi condanniamo tal uno di cui noi non abbiamo fatto la causa, anche se tutto il mondo lo condannasse. Dio mi è testimonio che io conculco tutte le cose per la fede del mio Dio, come vuole l'insegnamento evangelico ed apostolico..., né sopporterò che alcunché venga sovrapposto o diminuito alla sede episcopale di Roma». E dopo che Agostino, d'accordo con Ambrogio di Milano, avrà pronunciato che uno Stato deve essere retto dalla giustizia, senza di che esso è un immane brigantaggio, e che vi ha una morale cui devono inchinarsi anche i re perché divina, si comprenderà come siffatti vescovi potessero a Teodosio il Grande, che pur assunse il cristianesimo a religione di Stato, chiudere in faccia le porte di loro chiese dopo la strage di Tessalonica, finché non avesse fatta penitenza dei propri falli.
    D'ora innanzi la Chiesa d'oriente avrà a soffrire più d'una ipocrita protezione che di una negata libertà; ma frattanto questi dettami ed esempi che prima si levarono dal seno di essa, rimasero benemerenze e moniti inestimabili per l'ordine pubblico e la pace sociale nei più tardi secoli della civiltà cristiana.

    EFFETTI SCIENTIFICI. - Tanta luce di fede «che vien dal sereno che mai non si turba» così anticipatamente e largamente profusa nei paesi orientali dell'impero, poteva riuscire inefficace nel dominio della ragione scientifica cristiana, laddove nel cozzo delle più strane e degenerate sètte filosofiche e fra lo scetticismo più ributtante, si consumava l'agonia della cultura classica antica? Non può sfuggire il fatto solenne che quivi propriamente spuntò da radici vigorose e possenti anche l'albero fecondo della enciclopedia delle scienze morali, o, come altri scrisse, psicologiche o spirituali («Geistwissenschaften»), in piena corrispondenza con l'ambiente storico di multiformi lotte di pensiero.
    Sì: i santi padri e la pleiade di studiosi che li accompagnavano, erano di preferenza dei teologi e dei moralisti che polemizzavano con gli eretici pervicaci e tuonavano contro il costume pagano perdurante. Ma insieme si rammenti (ciò che la storia della letteratura scientifica ha oggi assodato) che sotto la veste di sant'Atanasio, di san Basilio il Grande, di Gregorio Nazianzeno, di Giovanni Crisostomo e dei loro continuatori e discepoli Giustino, Clemente Alessandrino, Origene, in oriente si fonda e cresce la filosofia considerata veramente come madre di tutte le scienze; che quivi dissertando sulla giustizia, la carità, l'onestà del costume, essi medesimi, i santi padri orientali, ponevano le pietre miliari della sociologia moderna, rivendicando la dignità della persona umana, l'integrità del matrimonio e della famiglia, i doveri della ricchezza, l'armonia delle classi, l'abolizione della schiavitù, il sollievo delle moltitudini popolari e sofferenti; che, quivi, per merito di Eusebio, di Lattanzio, di Cirillo di Alessandria, di Teodoreto, si posero i capisaldi della filosofia della storia che poi avrebbero ripreso e tradotto a sistema Orosio, sant'Agostino, Salviano; e che quivi, non lontano dai luoghi ove si scrissero gli atti degli apostoli e delle città ove si alternarono così frequenti e fecondi concili provinciali od ecumenici, si moltiplicarono ed elaborarono i materiali del futuro diritto canonico il quale poi, per l'intimità in quei tempi col diritto civile, tanta parte avrebbe avuto sul progresso delle dottrine giuridiche. Né si dimentichi che, come la fede operosa di questi santi e scrittori, così era operativa e pratica anche la loro scienza, divenendo un potente mezzo e una guida efficace alle riforme sociali civili del tempo e di quelle avvenire. E Costantino, il quale di tale scienza e di tali dotti; assunti a consiglieri, si valse, fu, anche per tale rispetto, uno strumento di civiltà.

    EFFETTI SOCIALI. - Chiunque fissi l'occhio a questo fascio di dottrine religiose, morali, scientifiche, che si era innalzato dinanzi alle popolazioni dei primi secoli del cristianesimo, è costretto a confessare che questo aveva creato un mondo ideale che avrebbe rigenerato e sostituito quello reale del paganesimo.
    Sotto quel fascio di luce e di calore fervevano i germi di un ordine nuovo sociale, le cui linee maestre venivano a delinearsi maestose lungo l'età costantiniana per l'azione della Chiesa, che ora scende alacre al suo meriggio, quasi cinque secoli prima del mille, in cui l'occidente cristiano ancora versava nel crepuscolo di un fosco mattino. Ed è propriamente in quelle regioni dell'impero che dall'Europa bizantina rigirano per l'Asia minore e la Palestina fino all'Africa settentrionale, che le testimonianze di tale rigenerazione si moltiplicano e si impongono.
    E tale palingenesi dapprima si afferma e palesa nel rinnovamento dell'uomo.
    E tale rinnovamento dapprima si afferma e risplende nell’uomo, la cui individualità si ritempra nella coscienza della propria dignità, nella indipendenza del carattere, nell'adempimento del dovere. E a dimostrare che il ganglio motore di tale trasformazione derivava dall'alto, e appunto in mezzo a queste popolazioni di triste fama tradizionale, di infido pensiero e di fiacco sentire, si adergano da ogni parte prototipi di vescovi e sacerdoti di una fede provata dalle più aspre battaglie del ferro persecutore, dagli arbitri imperiali, dalle subdole contraddizioni di conciliaboli; di una santità specchiata, persecutrice inesorata di ogni corruzione e viltà fra gli stessi cristiani, dal clero cortigiano al patrizio paganizzante, alle moltitudini grossolane, senza distinzione; i quali offrono lo spettacolo non più visto di un apostolato non solo religioso ma anche sociale, che con una operosità inesauribile si estende coi viaggi a più nazioni, che abbraccia per oggetto ben oltre la pietà, gl'interessi morali, civili, economici di ogni classe, dai familiari della corte all'infimo popolano, memori del monito dei concili che il ministro di Dio deve essere pater omnium. Ammaestramenti confermati dall'esempio, che trapassano nei fedeli la cui dignità personale fanno consistere nell'adempimento del dovere sorretta dalla libertà dei figli di Dio e dalla carità universale, che forma la fortezza del carattere secondo l'intimazione di Tertulliano: «Ricordati o cristiano che tu appartieni a Dio, e che dinanzi alla minacciata violazione della coscienza, tu hai imparato a vivere e morire non per te ma per Dio e per il genere umano»; fortezza cristiana che faceva scrivere al dotto Didimo: «Piuttosto che piegare all'umane leggi inique, conviene sfidare la morte»; e che moltiplicava da ogni grado sociale i martiri, più numerosi in oriente che nell'impero occidentale.
    Né questa mobilitazione della umana personalità si restringeva al sesso maschile, ma si accomunava alle donne. Né ciò soltanto per l'eroismo del martirio o per il profumo della pietà fino alla perfezione nelle vergini, spose e madri cristiane, o per lo zelo del culto, cominciando da sant'Elena presso il trono di Costantino e in tutti i luoghi santi, o per l'esercizio della carità nelle più ampie proporzioni, come Melania nell'affrancazione ed educazione degli schiavi delle province d'Africa; ma ancora per la più eletta cultura per cui, alla scuola di s. Girolamo in oriente ed in Roma, Paola, Albina, Marcella, si addestrano ai segreti delle scienze teologiche e bibliche ed agli esercizi letterari e linguistici.
    Questo interiore rinnovamento dell'umana individualità si integra e tramuta in un beneficio dell'ordine sociale, mercé le anticipate norme e discipline che l'autorità ecclesiastica, i concili, le istruzioni dei teologi e moralisti, nell'oriente cristiano, dettero massimamente e precocemente in ordine al matrimonio, alla procreazione, alla famiglia, come intimamente connesse con la dottrina e la morale evangelica. Ivi il celibato ebbe le prime sue illustrazioni di preminente perfezione cristiana negli encomi di santi padri ed apologeti; ivi i primi saggi organizzati nell'istituto delle diaconesse, origine degli ordini contemplativi femminili; ivi le prime norme precettive per il celibato del clero; tutto ciò propugnato con tale sollecitudine e zelo che parve esaltazione, e fu rimproverato di aver compromesso l'incremento delle popolazioni, specie dacché quella propaganda si accoppiò alla chiesta ed ottenuta revocazione delle leggi Papia e Poppea contro il celibato licenzioso dell'antica Roma. Ma la Chiesa si adoperava simultaneamente a risanare prima la radice del coniugio con la consacrazione delle nozze, con la condanna del divorzio, con le prescrizioni regolatrici degl'impedimenti matrimoniali che avocò a se stessa per diritto divino, e dippoi a rinnovare le antiche benedizioni celesti sopra i talami fecondi e sulla stabilità delle famiglie patriarcali.
     Che se questa malattia cronica pagana dello spopolamento generale, fra tanti altri coefficienti politici ed economici infesti, protratta ancor per secoli, non si riuscì prontamente ad arrestare nelle genti orientali e men che mai nelle occidentali, tuttavia fu osservato che le cellule prime vitali delle popolazioni avevano ripreso vigore; ciò che risulterebbe come indizio significativo dal fatto piuttosto frequente nell'oriente di padri e madri che si presentavano al martirio accompagnati e seguiti da numerosa prole. Anzi di grosse comunità cristiane che ripopolavano le città levantine, in tutte queste regioni si parla notoriamente, ad attestare che il fenomeno della rinascita demografica era ricominciato in particolare dal secolo IV e V.
    In queste conglomerazioni demografiche già si disegnano le prime linee di classi sociali novelle che correggono l'antica artificiosa graduazione. Continuano i ceti patrizi fondiari, ma spesso rappresentati da cristiani proprietari che riconoscono e praticano i doveri della ricchezza verso i diseredati e gli oppressi con larga profusione d'influenze protettive e di benefici sollievi.
    Continuano del pari le classi laboriose; ma il lavoro servile obbrobrioso pressoché universale e quello parallelo del libero artigiano così stremato nei secoli pagani, trovano felice concorrenza e correttivo in modesti ma crescenti nuclei di operai i quali, fra quel desolante decadimento, pure attestano di vivere contenti del frutto di un lavoro mai consacrato dalla religione del Cristo, e il nome di operaio e lavoratore fra uomini e donne ritorna onorato e caro non solo a Roma nelle iscrizioni delle catacombe, ma ancor negli scritti e nelle tradizioni delle città orientali e dei loro dintorni. Del lavoro, dal secolo III, erano stati iniziatori e maestri gli eremiti, composti dapprima e lungamente di fedeli laici (non del clero), i quali, ritraendosi in Egitto, in Palestina, nell'Asia Minore, nella stessa Tracia, in siti appartati dalla corruzione e miseria dei bassifondi cittadini, sostentavano la vita col lavoro delle loro mani alternato dalla preghiera.
    Soprattutto s'era aggiunta una nuova classe, e questa non già poggiante, dalle prime origini, sulla ricchezza o sulla fatica materiale del braccio, ma costituitasi ed innalzatasi nell' esercizio delle più sublimi funzioni dello spirito, cioè quella ecclesiastica del clero nel ministero religioso cristiano; ed essa s'era veduta, fra l’ammirazione comune, elevarsi per istituzione divina e per consenso di popoli sul fulcro della cultura e della virtù conseguendo nell'oriente (ben prima che nell'Europa occidentale) una organizzazione matura ed un'autorità morale-civile venerata fra le popolazioni e nello Stato. Essa porse quivi l'ammaestramento per tutti i secoli, quale sia la genesi spontanea delle classi superiori che d'ora innanzi avrebbero aspirato ad una primazia direttiva (le così dette classi dirigenti) delle altre per la eccellenza meritoria del proprio valore morale ed intellettuale, o per pubbliche benemerenze. Così era fondata nella sua costituzione organico-gerarchica la società nuova cristiana, nelle sue radici vergini e promettenti.
    Ma urgeva ad un tempo correggere e risanare qualche parte almeno della decrepita società pagana corrosa e crollante. Né il tentativo della Chiesa fu sempre infruttuoso: e si drizzò dapprima e con paziente longanimità alla schiavitù, e fu atto cosciente di giustizia civile emancipatrice sotto la veste di carità religiosa, se fra difficoltà immani di consuetudini, interessi, pregiudizi, divenne, prima che altrove, generale nelle regioni orientali «l'affrancazione in ecclesiis» degli schiavi, più tardi legalmente riconosciuta. Sono quivi i vescovi e i santi padri che impegnano una vera lotta, in nome della morale cristiana, contro la passione frenetica del circo, e dei suoi ludi cruenti, dei teatri e loro rappresentazioni scandalose, di ogni specie di feste, banchetti e divertimenti pubblici immorali, dei costumi privati dissipatori e di ogni sfruttamento di classe. Come la rivendicazione della dignità umana, sublimata dal soprannaturale, nello schiavo, avea rinvenuto nei santi padri una eloquenza affascinante, così il linguaggio per stigmatizzare il lusso insultante dei doviziosi, l'incentramento della proprietà terriera, i lucri di un commercio fraudolento, la sottrazione iniqua della mercede dell'operaio, l'oppressione dei poveri e specialmente la vorace usura che esauriva sotto la servitù del debito tutte le classi, raggiunge presso di essi espressioni iperboliche e, roventi di condanna inesorata, le quali non trovano spiegazione fuorché nella estrema gravità di malori da secoli connaturati con la società pagana e nel proposito inflessibile, di impedire che venissero soffocati e spenti con quella anche i germi testè sbocciati della società cristiana.
    Questi germi, pertanto, della società cristiana, conveniva avvalorare e svolgere con un'azione protettiva ed educatrice. Ciò pure fece il clero con operosità sapiente e indefessa.
    L'oriente cristiano, infatti, offerse, primo nella storia, lo spettacolo di una gerarchia ecclesiastica nella quale l'esercizio della sua missione divina per la cura delle anime si accompagna a multiforme attività esteriore, che quella rafforza ed estende, con doppio apostolato religioso e sociale insieme.
    Quivi sorsero, anticipando di qualche secolo 1'occidente, le parrocchie, circoscrizione ecclesiastica che servì a cementare nelle comunità cristiane una più intima solidarietà locale col loro pastore. Ed al parroco è fatto dovere dai sinodi orientali proprias cognoscere oves, ossia tener registri statistici delle proprie pecorelle. Ma questi frattanto servono ad organizzare colà la funzione di una speciale tutela che i canoni prescrivono a favore delle vedove, e dei pupilli, e dei poveri; e comincia cosi la protezione dei deboli e di pericolanti in questi alveari di locale convivenza cristiana. La parrocchia giova ad estendere e regolare ancora que' servizi elemosinieri che, iniziati nell' età apostolica mediante le diaconie, recavano i sussidi fratelli alle comunità cristiane bisognose da Gerusalemme e da tutte le regioni d'oriente fino a Roma. Anzi le diaconie che i vescovi introdussero ben presto in tutte le diocesi, cioè i gruppi di sacerdoti adibiti agl'interessi sociali-economici, in specie alla gestione dei beni ecclesiastici ognor più crescenti e destinati dai canoni conciliari (avvertasi bene) al triplice beneficio del culto, del clero, e dei poveri, divennero in breve tempo modello di amministrazione; sicché i vescovi, per mezzo delle diaconie, dai primi imperatori cristiani in oriente furono incaricati di distribuire i soccorsi annonari che lo Stato forniva in tempi di carestia o di pubbliche calamità.
    E qui la funzione tutrice e soccorritrice del popolo si annoda a quella educativa. Quando in processo di tempo, attraverso controversie vivaci fra i santi padri, si impegnò una campagna per la riforma degli eremiti, buona parte dei quali (come ricordammo) era composta di un laicato presto degenerato nel costume, quelli, per opera della Chiesa, furono trasformati primamente nell'oriente (Egitto, Cappadocia sec. IV) in Ordine religioso regolare di vita isolata ascetica e penitente, cioè nello storico monachismo che poi, avvivato dal lavoro intellettuale e materiale d'ogni specie, fu da san Benedetto trasferito in occidente (sec. VI). Ma allora accadde che que' primi eremiti laici orientali, già usati dall'origine per spirito cristiano e per proprio sostentamento ad esercizi economici manuali, si tramutassero colà in altrettanti germi di consociazioni popolari laboriose. E queste più tardi, dietro le tradizioni dei collegia opificum di Roma, (continuate nelle scholae del levante bizantino) e col favore della personalità giuridica e di patrimoni elargiti dagl'imperatori Costantino e Teodosio a comunità, chiese ed istituzioni cristiane, vennero ad enuclearsi intorno al clero parrocchiale nelle città e nelle campagne, in forma di «que' sodalizi industriosi e delle università campagnole», che poi spiccarono e prosperarono vieppiù nell'occidente. Così nell'età costantiniana si parla di plebs christiana anche nel senso di una incipiente classe di cristiani lavoratori.
    Tale virtù educativa, per lo più per merito delle istituzioni ecclesiastiche, si estese ai ceti più elevati e, rispetto a questi, essa si insinuava in seno ad essi, attraverso quel lavorio aperto, intenso, militante di critiche e condanne autorevoli dell'ozio corruttore e prepotente delle classi proprietarie e capitalistiche, e in particolare degli abusi flagranti della ricchezza, strascico di false teorie e di croniche costumanze pagane. Moralisti, santi padri e sinodi ecclesiastici, polemizzando e sentenziando, vi contrapponevano e proclamavano alto verità e leggi etiche del Vangelo, le quali tutte confluivano alla conclusione affatto nuova in quei tempi, della subordinazione piena ed universale della produzione e dell'uso della ricchezza, da parte dei favoriti dalla provvidenza, ai doveri sacri della giustizia e carità; e ciò nelle relazioni non solo private, ma anche sociali. Tutto questo e in specie i precetti riguardanti l'uso della ricchezza, per cui ogni proprietà pur consacrata dal cristianesimo deve essere dal proprietario stesso (subordinatamente alle sue necessità e convenienze personali) destinata alla conservazione ed al benessere generale, trovasi propugnata con tale vibrata intonazione da teologi e canonisti da sembrare virulenza o proselitismo socialistico ad alcuni critici recenti del resto facilmente confutati. Ma frattanto le prime mosse di un sistema di dottrine sociali economiche, che poi svolse la scolastica del medio evo occidentale, si trovano con sicurezza segnate già fin dai primi precursori dei santi padri in oriente, quali i due Clementi, Ignazio, Policarpo, Taziano. Che poi queste voci autorevoli trovassero corrispondenza efficace nelle popolazioni è attestato dal fatto che i nomi e i saggi tipici d'istituzioni di beneficenza che si incontrano tuttora in Europa sono pressoché tutti di vetustissima origine greco-bizantina. Così, non meno delle classi inferiori col lavoro, si erano, con esercizio della carità cristiana in forma ampia sociale, rialzate e legittimate anche le classi superiori. Fra tutte poi è una continua e calorosa predicazione, con gli scritti e nella pratica; dei reciproci doveri di giustizia e di amore, dell'armonia, e della fratellanza non solo fra i fedeli, ma anche coi barbari e coi pagani, di particolari sollecitudini per i deboli e per i sottostanti da parte dei forti e soprastanti; ciò che abilita ad affermare che sugli orizzonti levantini dell'impero ai tempi di Costantino, già balenavano i meravigliosi contorni di una società gerarchica, nata e cresciuta sotto gli occhi della Chiesa a vita autonoma, distinta dallo Stato e potenzialmente universale, cementata dalla solidarietà veramente cristiana, in cui avrebbero trovato sollievo le moltitudini e tutti gli oppressi ed i vinti delle passate età.
     Clemente di Alessandria, nei suoi Stromata e nella sua Pedagogica, moltiplica i fatti e gli indizi di questa società cristiana che recava seco i raggi della vita crescente «fra le ombre calanti della morte», come si additava allora il tramonto della società pagana.

     EFFETTI ETICO-GIURIDICI SULLA SOCIETÀ. - Questa vita cristiana il clero assunse, con multiformi e assidue prestazioni, di alimentare e dirigere nelle novelle comunità.
     I vescovi, nel periodo romano-orientale, tradussero in atto il monito dei concili di profferirsi quali «padri di tutti» facendosi consulenti negli affari ed in ogni contingenza della vita dei fedeli sì da non aver più tregua in tali uffici e compromettere talora lo spirito interiore e il ministero ecclesiastico. Di tali saecularia negotia troppo incalzanti si lamenta Agostino, pure non rigettandone il peso «per onore di Dio e per fiducia di premio eterno». Intervenivano come pacieri nel perdono delle offese, nella correzione fraterna, nelle autoritarie riprensioni. Soprattutto aborrendo i cristiani dal contenzioso forense sia per lo spirito di mansuetudine tra i fratelli, sia per il pericolo di adire a giudici pagani, i vescovi si prestavano (per mezzo di sacerdoti e diaconi) ad ufficio di conciliazione amichevole e, non riuscendo, pronunciavano essi medesimi sentenze arbitrali con crescente e severa applicazione di tali espedienti estragiudiziali; sicché il cristiano che non si sottomettesse alla decisione vescovile era considerato come etnico e pubblicano.
    Con attività giuridica più elevata e diretta, la Chiesa, mercé queste sentenze, la rispettiva giurisprudenza curiale, le norme disciplinari dei frequenti sinodi diocesani e dei concili massimamente orientali, creava e veniva erigendo, al di fuori del giure romano, un sistema proprio di leggi, ossia il giure canonico, tratto immediatamente dal diritto divino, ossia compenetrato con la verità e la morale rivelata, e dedotto da criteri di diritto naturale con  derivazione immediata dall'etica razionale universale, svolto ed applicato con processo storico progressivo a tutte le contingenze di una società novella; giure canonico che di questa già rispecchiava la vita giovanile, a differenza del diritto romano, prono ormai ad irrigidirsi nei contorni senili di una società moritura, sebbene con questo diritto ellenico-latino quello non interrompesse le mutue comunicazioni. Ma frattanto questo lavorio della gerarchia ecclesiastica, che riusciva a collocare un diritto della Chiesa a fianco e talora di fronte al diritto dello Stato, raffermava e scolpiva agli occhi di tutti la indipendenza sovrana di quella che, colla maestà di una legge universale, preparava il substrato del diritto internazionale medesimo.
     Si dovrà in tal caso far meraviglia se, muniti di tanto prestigio a beneficio della società cristiana, i vescovi, quali rappresentanti, difensori, vindici di essa, si fanno consiglieri delle civili autorità, esercitano una vigilanza sulla pubblica amministrazione, si appellano alla sovranità imperiale contro gli abusi di magistrati e funzionari, protestano dinanzi all'imperatore per la iniquità delle leggi, per i suoi arbitri stessi e per le sue colpevoli debolezze o vanno incontro ai barbari ed ai lor duci violenti o ribelli per la salvezza delle popolazioni e la incolumità dell'impero? Prima ancora di papa Leone Magno incontro agli Unni e di Gregorio VII di fronte ad Enrico IV per la libertà della Chiesa e del diritto italico, la storia dell'episcopato orientale, da Costantino a Teodosio e a Valentiniano III, rigurgita di queste benemerenze d'inestimabile valore civile. I vescovi dell'impero bizantino senza tregua perorano presso il governo per l'alleviamento delle insopportabili imposte; gli eremiti dalla campagna precipitano nella capitale ed entrano nei tribunali ad infrenare le inique condanne e le crudeli repressioni, da parte del prefetto di Costantinopoli, degl'insorti di Antiochia (sec. IV); il Crisostomo, mentre l'imbelle Bisanzio tremava di fronte alle minacce del goto Gainas, andando incontro come un Attilio Regolo cristiano al barbaro, riesce ad arrestarlo e poi a suscitare contro di esso la riscossa vittoriosa delle armi imperiali (fine sec. IV); Agostino d'Ippona, l'ultimo patriota dell'Africa romana, alza la voce verso il vendicativo governatore Bonifacio, affinché perdoni i torti della corte e difenda la provincia invasa dai vandali (a. 429). Quell'impero morale che la Chiesa avrebbe conseguito ed esercitato splendidamente nel medio evo sulla società civile, si era già affermato ben prima efficacemente nel tramonto dell'impero politico greco-latino; ma era forse usurpazione a detrimento dei cittadini e dello Stato?

    EFFETTI GIURIDICO-POLITICI SULLO STATO. - Certamente la Chiesa, con l'anticipata sua costituzione storica nell'impero orientale e con la profusione del suo zelo operoso in seno alle popolazioni, aveva limitato la onnipotenza panteistica dell'antico Stato pagano; e questo apparve, e fu di fatto in qualche misura, soggettato alle leggi etiche di un legislatore eterno, e il giure umano positivo rimase vieppiù contenuto entro l'ambito d'un diritto universale di natura. Ma di ricambio, al di sotto di questo duplice limite, la sovranità del principe si trovò riconsacrata come riflesso della suprema autorità divina; gli ordinamenti di Stato apparvero come parte integrante dell'ordine provvidenziale e l'obbedienza dei cittadini resa razionale si affermò con la coscienza del dovere e del bene comune. L'oriente cristiano ebbe la gloria di aver per primo raggiunto un pubblico riconoscimento legale di questi canoni essenziali dello Stato cristiano, qualunque ne fosse poi la pratica attuazione, e di averne sperimentato, per virtù propria ed ammaestramento altrui, fra le stesse resistenze e violazioni, l'efficacia profonda nei problemi della pubblica amministrazione.
    Le funzioni dei pubblici poteri, infatti, si trovarono per altro rispetto elevate ed estese. La funzione strettamente giuridica dello Stato, subendo l'influenza dei principi più squisiti dell'etica cristiana e degli esempi del giure canonico, si elevò a più alta spiritualità, sicché il diritto di Roma antica, ritemprandosi a fonti di perenne e feconda vitalità da Costantino a Teodosio, a Giustiniano fino a Leone il Saggio, potrà accostarsi al mos ed al ius dei vergini popoli dell'età di mezzo, per ricongiungersi infine alla legislazione moderna. E alla sua volta la funzione civile dello Stato, già soffocata dalle preoccupazioni politico-militari nel paganesimo, impensatamente si aperse ad un compito sconfinato, quello di conferire il progresso dell'incivilimento nel consorzio umano, coadiuvando con mezzi esterni e suoi propri a quei fini di perfezionamento individuale e collettivo, a cui con mezzi essenzialmente interiori e sovrannaturali si era già dedicata la religione e la Chiesa. Tali la elevazione della dignità umana, la cultura e gli istituti educativi, la difesa dell'onesto costume, la protezione dei deboli, il sollievo delle moltitudini, l'epurazione delle fonti della ricchezza, l'armonia delle classi, l'adempimento di una missione etnico­nazionale, il progresso universale. A questo programma si ispirò indubbiamente l'azione legislativa e politica di Costantino.
     Chi segua ed abbracci con imparziale veduta comprensiva l'opera di lui riformatrice dello Stato, nei suoi ordinamenti e nelle sue leggi private e pubbliche, fra le reliquie inevitabili di pregiudizi pagani e nella necessità di prudenti innovazioni graduali in mezzo a malori profondi e inveterati, deve pur confessare che egli adempì ad una grande funzione civilizzatrice della società per l'organo dei pubblici poteri.
    Tuttavia questo giudizio si ricollega ad un altro superiore che lo illustra e completa. Egli e i suoi successori, nell'età che comprende il ciclo storico costantiniano, non fecero che seguire e integrare quanto già da secoli andava compiendo il cristianesimo e la sua Chiesa in favore dell'umano incivilimento.

    CONCLUSIONE. - Si veramente: la Chiesa, iniziando e proseguendo con virtù soprannaturali la sua missione religiosa in nome del cristianesimo, fece primamente, nel seno delle popolazioni dell'impero orientale dall'origine fino al chiudersi dell'età costantiniana, maravigliosa opera di rinnovamento civile profondo e completo, da cui prendono le mosse tutti i periodi posteriori della civiltà che ancora rifulge in mezzo a noi. Essa aveva rigenerato l'uomo e la sua dignità, ritemprata la famiglia, risanati i costumi, moltiplicate le popolazioni, ricostruite e armonizzate le classi, creata la plebs christiana e delineate le linee maestre dell'economia della ricchezza. Essa aveva trasformato lo Stato, e di questo ringiovanito il diritto, spiritualizzate e socializzate le funzioni. Essa accese i focolari della scienza nelle regioni più sublimi del sapere, assegnò all'impero una missione provvidenziale, custodì le tradizioni della moritura civiltà ellenico-latina, e fondò la coscienza lucida e incrollabile di una civiltà che si sarebbe mantenuta di gran lunga superiore a quella ellenico­latina; civiltà una, progressiva, universale, che si sarebbe perpetuata in Cristo e nella Chiesa di Roma.
    Di questa civiltà che ascende rapidamente nelle regioni levantine, cantano il peana Girolamo, Gregorio Nazianzeno, il poeta Prudenzio, il dotto Minucio Felice. Ed è merito di Costantino che ne intuì i destini, di avere iniziato quelle trasformazioni giuridico-politiche che dovevano legalmente avvalorarla e che più tardi Teodosio compì. Inattesa conversione della politica romana che si inaugurava coll'«editto di libertà cristiana» e che Costantino riconobbe l'effetto di una ispirazione divina; e l'averla secondata formerà sempre la sua gloria.
     Tuttavia non conviene menomare o nascondere la interezza della verità storica in ordine ai risultati finali.
    E' troppo noto, dolorosamente, che tale indipendenza ecclesiastica, così ricca di benefici sociali, primamente riconosciuta dall'imperatore cristiano e tradotta in atto nelle popolazioni orientali, più tardi, con lungo e lacrimevole processo storico di pervertimento, sia per la sopravvivenza di longevi pregiudizi pagani, sia per la corrosione di eresie insidiose e pertinaci a detrimento di quel primo rinnovamento civile, sia infine per lo stesso intimo ricambio di mutui servigi fra Chiesa e Stato via via tramutatosi nella inframmettenza usurpatrice ed oppressiva da parte di quest'ultimo, tale libertà ecclesiastica (ripetiamo) veniva a sminuire e infine a spegnersi nella servitù cesaro-papistica degl'imbelli e fedifraghi successori di Costantino. Fu veramente la riproduzione del panteismo religioso-politico dell'antico paganesimo. Ma nell'impero stesso bizantino che precipita a ruina, in cui fu per la prima volta promulgata, colla maestà della legge romana, la «libertà della Chiesa», questa parola echeggerà ancora a protesta in oriente sulle labbra di Osio di Cordova, di Atanasio, di Crisostomo, per trasmetterla in occidente ad altri santi padri, vescovi e pontefici i quali, a lor volta, la ripeteranno, in più vasti orizzonti e con più solenni e duraturi successi, ad altri tempi e popoli per rammentare alle remote generazioni che l'annunzio dato da Colui che divinamente pronunziò veritas liberabit vos rimarrà perennemente pegno di immortalità non solo per la Chiesa, ma per l'incivilimento cristiano nel mondo. Questo è l'ammaestramento sociale che ogni altro compendia.


***

NOTE


(1) Questo scritto formò la sostanza di una lettura tenuta in Roma nel palazzo della Cancelleria il 24 aprile 1913, per invito del comitato per la commemorazione centenaria costantiniana.

(2) Una bibliografia relativamente completa intorno a questo argomento in opere e monografie, altre generali, altre speciali, trovasi nella Storia sociale della Chiesa di mons. U. BENIGNI, per ora in due volumi, Milano, ed. Vallardi, 1906 e 1912.

(3) La stessa Storia sociale della Chiesa di mons. U. BENIGNI (cit.) imprende a trattare in modo esauriente, con copia di fonti prime e derivate e con larghezza di concetti, i quesiti che oggi si discutono intorno all'età costantiniana, dalla quale egli fa dipartire la storia suddetta; il primo volume sotto il titolo «La preparazione: dagl'inizi a Costantino»; il secondo (pt. I), «Da Costantino alla caduta dell'impero romano». Noi vi attingemmo per queste sintetiche osservazioni, e vi rimandiamo i cultori di più analitici studi in proposito. Rispetto all'editto costantiniano, alla sua realtà storica ed alla sua interpretazione corretta, intorno a cui si esercitò recentemente la critica (non sempre imparziale), veggasi la monografia diligente e concettosa dell'avv. C. SANTUCCI, L'editto di Milano specialmente nei riguardi giuridici, in Riv. Intern. di scien. soc. ecc., Roma, marzo 1913; il quale alla sua volta si avvalorò della dissertazione del prof. SCHNEIDER, L'editto di Milano e i recenti critici che lo riguardano, in Atti dell'Accademia pontificia di archeologia, Roma, Tip. Vaticana, 1933. Le controversie in cui si trovarono impegnati già Seeck e Crivellucci (1891 e 1895) e a cui portarono contributi Boissier, Monaci, Allard, ecc. (e si possono aggiungere in questi dì P. Rinieri, P. Pavissich, Delle Selve, ecc.), si trovano criticamente riassunte nelle due monografie suindicate e conducono a conclusioni assodate sia intorno all'esistenza storica dell'editto, sia alla sua importanza. Fra questi ed altri recenti scritti, comparsi in riviste e giornali, tengono un posto eminente quelli di F. MEDA, il quale ebbe il merito di proporre, forse primo in Italia, da parecchi anni tali studi commemorativi dell'odierna ricorrenza costantiniana.

(4) Cfr. B. KIDD, Principles of Western Civilization, London, Macmillan, 1902; G. TONIOLO, L'odierno problema sociologico. Studio storico critico, Firenze, Libreria ed. fior., 1905.

(5) Per i concetti generali sul panteismo di Stato antico e moderno, cfr. A. M. WEISS, Soziale Frage und soziale Ordnung, Freib. im Br., 1904; e per le applicazioni storiche nell'antichità cfr. R. P OHLMANN , Geschiche des antiken Kommumismus und Sozialismus, Munchen, Beck, 1893-1901.

(6) Per gli ordinamenti panteistici degli Stati in Grecia e Roma attimi particolarmente a FUSTEL DE COULANGES, La Cité antique. Étude sur le culte, le droit, les institutions de la Grèce et de Rome, Paris, Hachette, 1866.

(7) Merita ricordare la serie delle pubblicazioni di vero valore scientifico uscite dopo le encicliche celebri di Leone XIII, intorno alle dottrine sociali del cristianesimo e della Chiesa. Ora si pubblica in Francia una collezione speciale di tali opere col titolo: La pensée et l’oeuvre sociale du christianisme. Études et documents, promotore A. LUGAN, che già dettò due dotti volumi: L'enseignement social de Jésus, Paris, Blond, 1910; La grande loi sociale de l'amour des hommes, Paris, Tralin, 1913.

(8) Cfr. V. RIVALTA, Diritto naturale e positivo. Saggio storico, Bologna, Zanichelli, 1898.

(9) L'originalità del cristianesimo di fronte alle religioni ed alle dottrine filosofiche dell'antichità e riconosciuta e talora bellamente illustrata (in onta ad un resto di preconcetti hegeliani) da R. MARIANO, Scritti vari, Firenze, Barbera, 1900-1911. Vedi in particolare: «La conversione del mondo pagano al cristianesimo», V. 2.

(10) Cfr. C. CANTÙ, Storia universale, Torino, Unione Tip. Editr., 10. ed., tomo III, L'età eroica del cristianesimo.

(11) Vedi N. TAMASSIA, L'agonia di Roma, Pisa, 1894. A pochi riuscì di delineare con brevi, ma scultorei tratti maestri desunti rigorosamente da fonti prime, la decadenza inesorabile di Roma antica, come all'illustre professore di storia del diritto (ora in Padova) , in questa monografia letta per l'inaugurazione dell'anno accademico all'Università di Pisa. Noi ne profittammo, riportando virgolato qualche passo del dotto discorso.

(12) TAMASSIA, op. cit.

(13) Le precedenti osservazioni consuonano col tesoro di ricerche istituite da H. GRISAR nel dottissimo volume: Roma alla fine del mondo antico, secondo le fonti scritte ed i monumenti. Traduzione di Angelo Mercati, sull'originale tedesco, Roma, Desclée, 1908, 2. ed.

(14) FUSTEL DE COULANGES, op. cit.

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